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Prey

2021
REGIA:
Thomas Sieben
CAST:
David Kross (Roman)
Hanno Koffler (Albert)
Maria Ehrich (Eva)

Il nostro giudizio

Prey è un film del 2021, diretto da Thomas Sieben.

Nei giorni del discusso e discutibile day and date release che tanti problemi sta dando ai tentpole hollywoodiani, la vecchia polemica sullo streaming come sabotatore interno dei film a grande budget è tornata prepotente in auge. I luccicanti luna park Disney-Marvel dormano sonni tranquilli: né il blockbuster da multisala, né tantomeno il cinema d’autore abbandoneranno le sale tanto presto. La vera vittima, se così si può definire, sta altrove: ad essere ormai interamente trasmigrato su Netflix e compagni, è piuttosto il caro vecchio cinema “brutto”, di consumo, travolgente per quantità quanto scadente per fattura – i Big Mac dell’audiovisivo, che per decenni rappresentarono il pane quotidiano di sale ed esercenti. Su Netflix rivive il peggio del grindhouse, ovviamente  disinfettato per il nuovo pubblico – e Prey di Thomas Sieben è cinema exploitation nell’accezione più arcaica del termine: roba da poco, fatta con lo stampino di diversi altri prodotti contemporanei. Praticamente un film-bot, un algoritmo visuale che avrebbe reso orgogliosi, nel suo bieco cinismo, quei vecchi sceneggiatori di una volta costretti a improvvisare script-ricalco rubando da locandine e titoli dei successi americani. Un cinema tanto facile da sottovalutare quanto da “rivalutare”: rischio che qui non si corre. Prey muove da un tema sufficientemente sfruttato da essersi fatto negli scorsi anni vero e proprio trend: quello della caccia all’uomo (La decima vittima), nella sua versione vacanziera ai danni di ignari turisti (Un tranquillo weekend di paura).

The Hunt (Craig Zobel, 2020) è probabilmente il successo recente all’origine del calco – Red Dot (Alain Darborg, 2021), esperimento Netflix di pochi mesi fa sullo stesso tema, ne è invece l’ovvio antesignano produttivo. Il film di Sieben si limita dunque a riproporre in Germania, con ancor meno budget e idee, quanto assai meglio messo in piedi da Darbog nella tundra svedese. Come anche nel suo film-fratello maggiore, anche in Prey si evidenzia soprattutto un’interessante evoluzione del filone, dai suoi prototipi seventies fino al revival 2020; la ricetta del film di caccia all’uomo moderno prevede infatti meno satira, meno paranoia classista – più intimismo, più senso di colpa, e un ossessivo e po’ vigliacco ripiegare sul privato come motore drammaturgico. L’uso spasmodico del flashback, ad allontanarsi costantemente dall’azione, rivela l’urgenza di riallacciare il thriller a una dimensione familiare, individualista: lo stesso motore orrorifico non è più identificato in un folle e armato Altro emerso da chissà dove, quanto nel riemergere di piccoli screzi da classe media, rancori più o meno nascosti e più o meno relatable per il nuovo spettatore digitale. Anche rispetto ai suoi modelli recenti, Prey è veramente pochissima roba. Fin dal plot è chiaro l’intento di portare a zero ogni orpello, provando a sintetizzare in vitro una sorta di DNA base del manhut: cinque personaggi, un nemico misterioso armato di fucile, la foresta – nient’altro.

Ma la scusa dell’economia visiva pare qui nascondere più che altro una certa aridità, quando non proprio malcelata impotenza creativa. C’è sì un pizzico di veleno e critica sociale tipicamente mitteleuropea sulla grettezza delle finte amicizie; a mancare è però proprio l’orrore, la vertigine di un pericolo ignoto e incombente. L’ambiente stesso, il placido e soleggiato bosco protagonista, non partecipa attivamente al senso di precarietà esistenziale che dovrebbe schiacciare le vite degli ignari agnelli al macello: il terreno della caccia non è ostile, non è isolato, nasconde un nemico ridicolo e iconograficamente inesistente. Tutto funziona contro se stesso, e il risultato, più che un bignami del genere, pare un manuale su cosa evitare nella costruzione di un racconto analogo. Ogni considerazione di questo tipo conta ovviamente zero: l’algoritmo ha già programmaticamente premiato Prey, consigliandolo a trecento milioni di utenti e portandolo per qualche decisivo minuto in top tra i prodotti imperdibili dalla implacabile ed efficace piattaforma. Tanto basta a giustificarne l’esistenza: il senso dell’operazione, come ci fosse bisogno di evidenziarlo, sta esclusivamente nel rifornimento alimentare di contenuti, a fronte di richiesta mai così vasta e bulimica. Al prossimo film della playlist sarebbe lecito augurarsi un aumento dell’intensità visiva – ma non è il caso di aspettarselo. Dopo Svezia e Germania, continuando a scendere sulla mappa potrebbe toccare all’Italia consegnare a Netflix il suo personale film di caccia all’uomo, il primo dai tempi di Petri. Chissà se saremo pronti.