Featured Image

Overdose

2022
REGIA:
Olivier Marchal

Il nostro giudizio

Overdose è un film del 2022, diretto da Olivier Marchal.

Tutti i patiti del genere conoscono Olivier Marchal, figura unica e peculiare: prima poliziotto, poi attore di cinema e di teatro, quindi sceneggiatore e regista. Per la natura delle cose i suoi racconti dei flics, gli sbirri, sfoggiano da subito una potenza inedita: dall’esordio nel lungo, Gangsters nel 2002, passando per il memorabile dittico composto da 36 Quai des Orfèvres (2004) e L’ultima missione (2008), che tingeva di nero le figure di Depardieu e Auteuil, per arrivare ai titoli più recenti come La truffa del secolo (2017) e Bronx (2020). Senza giri di parole, Marchal è uno che ha riscritto le coordinate del noir: lo ha strappato all’universo rassicurante della narrativa, espungendo l’edulcorazione e il sentimentalismo, e riportato all’odore della realtà, al sapore della polvere da sparo, alla puzza della strada. Il suo è un noir scritto e messo in scena da chi quell’ambiente lo ha bazzicato a lungo, ma non ce lo offre con un banale esercizio di realismo, bensì attraverso un gesto cinematografico puramente di genere. Poliziesco al cubo. Noir all’ennesima potenza.

La corsa di Marchal iniziava vent’anni fa. Cosa resta ora? I suoi film si sono trasformati, evoluti in senso meno autoriale e più industriale (niente più Depardieu, meno facce conosciute), ma di fatto sono rimasti fedeli a se stessi. Marchal oggi è Overdose, titolo paradigmatico, così anche in originale, uscito direttamente su Prime Video. Una storia di droga dura, cattiva e sanguinaria: tutto inizia col brutale omicidio di due ragazzini, di 13 e 15 anni, che vengono fatti fuori dentro un ospedale. Chiaramente un debito da pagare, una vendetta contro qualcuno o qualcosa. Sul caso si butta il capitano Sara Bellaïche (Sofia Essaïdi), polizia giudiziaria di Tolosa, che ben presto collega l’indagine a un traffico di droga internazionale tra la Francia e la Spagna. Ad affiancarla trova Richard Cross (Assaaad Bouab), capo dell’anticrimine parigina. Dall’altra parte della barricata c’è una banda criminale che sta preparando un “go fast”, detto in gergo: una strategia che permette di trasportare velocemente grandi quantitativi di droga, soprattutto cocaina, da uno Stato all’altro evitando i controlli della dogana. Però la donna tossica di un bandito resta uccisa in uno scontro a fuoco in Catalogna: visto che il suo DNA corrisponde ad alcune tracce rinvenute nell’ospedale di cui sopra, ecco che la questione si fa internazionale. Gli sbirri francesi e spagnoli si lanciano per strada all’inseguimento dei malviventi.

C’è di tutto nel vortice del regista: il gangster violento, i sospetti e i tradimenti, i contrasti nelle fazioni che si spaccano e ricompattano, il sesso disperato in entrambi gli schieramenti. C’è anche una vecchietta che, come moglie un ex poliziotto accoppato, vede e fotografa tutto dalla finestra, come le insegnò la buonanima del marito. E c’è una galleria di magnifiche facce da galera, basta guardare il viso sfregiato di uno come il franco-algerino Nassim Lyes, o l’algida spietatezza di Philippe Corti che esplode in violenza improvvisa. Ma forse perfino più importante è quello che nel film non c’è: l’approccio sociologico al genere, l’idea che dietro all’azione debba esserci una spiegazione. Per Marchal il noir è auto-significativo, non serve certo un messaggio o una traccia politica per valorizzarlo, anzi sarebbe un errore. Ecco allora dispiegarsi la dinamica del racconto, un inseguimento feroce che avanza per sparatorie crude e crudeli, un go fast supersonico in cui conta l’azione e non la riflessione. Solo un esempio: la prodezza della trafficante Vanessa (la splendida Naïma Rodric), che si produce in un pissing per distrarre gli agenti e quindi tentare la fuga. Genere puro. Due ore di overdose, appunto. Il cinema di Marchal consegna questo straordinario lascito: il genere basta a se stesso. Dedicato a Jean-Paul Belmondo, divino protagonista de Il bandito delle 11 e Borsalino. Un caso? Io non credo.