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Outback

2019
Titolo Originale:
Outback
REGIA:
Mike Green
CAST:
Lauren Lofberg (Lisa)
Taylor Wiese (Wade)

Il nostro giudizio

Outback è un film del 2019, diretto da Mike Green.

Per carità, il male non si augura a nessuno. Ciò nonostante, se scegli di infrattarti ben bene nell’impervio entroterra australiano assieme alla tua dolce metà a bordo di una scalcinata macchina a nolo con solo una misera bottiglietta d’acqua e qualche dubbia mappa scaricata in fretta e furia su di un vecchio iPhone, beh, diciamo pure che un tantino te la sei andata a cercare, no? E come sempre accade in questi casi, cerca che ti ricerca, finisce che la sfiga, quella nera, sicuramente ti troverà e te la farà pagare con tutti gli interessi. Un amaro prezzo che i due poveri protagonisti dell’ansiogeno Outback saranno costretti a saldare a forza di lacrime, sangue e tanto tanto sudore, così come l’implacabile legge dei survival movie impone senza possibilità di appello. Ed è solo grazie al tanto amato canale di Midnight Facotry se finalmente questa allucinante epopea ai confini della sopravvivenza, confezionata con buon mestiere da Mike Green sulla base di un evento realmente accaduto nel 2015, può giungere infine anche sui nostri schermi, facendoci assaporare tutta la sofferenza, la disperazione e soprattutto la disidratazione di una coppia scoppiata travolta da un insolito destino nella desolata e assolata terra dei canguri e di Nicole Kidman.

A dirla tutta non è che il viaggetto di Wade (Taylor Wiese) e Lisa (Lauren Lofberg) fosse iniziato con i migliori auspici. Tra i due si percepisce infatti una certa maretta sin dalle primissime sequenze, quando, giunti in quel della bella Sydney dopo una traversata in aereo a quanto pare non proprio idilliaca, i nostri due bei fidanzatini non fanno mistero di star attraversando tempi non particolarmente felici, forse a causa di un arruolamento inaspettato che potrebbe compromettere la solidità della loro relazione oppure, cosa ancor peggiore, il sofferto rifiuto di una proposta matrimoniale. Insomma, due cuori e una capanna dalle fondamenta pericolosamente traballanti che scelgono tuttavia di mettere momentaneamente da parte le nuvole che si addensano minacciose per imbarcarsi in un avventuroso viaggio alla sperindio attraverso l’affascinante ma potenzialmente pericoloso Outback australiano, totalmente sprovvisti di qual si voglia genere di conforto e con tutta la sfrontatezza che solo due giovani americani in trasferta possono vantare. Quando infatti la tua dolce metà, poco prima di affrontare chilometri e chilometri di terra, sole, sterpaglie e nulla,  ti chiede dubbiosa se non sia il caso di portarsi dietro un GPS un tantino più in grazia di Dio e tu, da buon masculo alfa, le dici sprezzante che, tranquilla, basta e avanza Google Maps, ecco che allora è solo questione di un attimo prima di ritrovarsi a vagare non si sa bene dove sotto oltre quaranta gradi di raggi UV senza uno straccio di sorso d’acqua e  con la sola compagnia degli zampettanti, striscianti e letali abitanti delle sabbie.

È decisamente un film ansiogeno Outback, in primis per la terrificante esperienza sperimentata in prima persona dai due coraggiosi protagonisti costretti a confrontasti vis-a-vis con l’implacabile caducità dell’esistenza e, in secundi, per il letale mix di fantozziana sfiga e sordida idiozia che investe i due desperados durante la loro odissea ai confini del desertico nulla. E così, se da una parte ci si strugge e dispera nel vedere i nostri sudati ed escoriati eroi insidiati da serpentelli, scorpioni e labbra screpolate tentare di estorcere molecole di H2O da qualunque cosa gli capiti a tiro, dall’altra non si può fare a meno di rimanere interdetti dinnanzi ai goffi tentativi di filtrare i liquami di scarico del radiatore attraverso la propria urina così come dalla viscerale tentazione di scattarsi un ultimo selfie mentre la morte già bussa sorniona alla porta. Ed è appunto questa miscela di cruda realtà e bonaria idiozia tutta cinematografica che contribuisce a rendere ancora più tesa e allucinata l’opera di Green, nella quale l’insistenza sul decadimento fisico e su di una sofferenza squisitamente corporale modello The Passion of Christ riesce a far trasudare da ogni singola inquadratura tutto il dolore che un essere umano è in grado di sopportare, mettendo in rialto anche visivamente la grande frizione fra un dramma pietosamente intimo e la vastità opprimente della natura selvaggia come già Danny Boyle con 127 ore era stato in grado di riportare sullo schermo. E come fu a suo tempo per il povero James Franco incastrato fra le rocce dello Utah, una piccola decisione sbagliata a monte può avere mortali ripercussioni a valle. Ricordatelo sempre