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Non credo in niente

2023
REGIA:
Alessandro Marzullo
CAST:
Demetra Bellina (Numero 4)
Giuseppe Cristiano (Centocelle)
Renata Malinconico (Cara)

Il nostro giudizio

Non credo in niente è un film del 2023, diretto da Alessandro Marzullo.

A intervalli irregolari torna il solito discorso da bar sulla rinascita del cinema italiano. Rinascita vera o supposta? Quella vera andrebbe anche bene, la supposta sappiamo dove si mette… Battute a parte, naturalmente chiacchiere del genere sono insensate, ma si può sempre cercare qualcosa di interessante, lontano dai Paolo Genovese di turno, guardando alla periferia dell’impero. Come Patagonia di Simone Bozzelli. E come Non credo in niente, esordio al lungometraggio di Alessandro Marzullo attualmente nelle (poche) sale, col regista che ci tiene particolarmente a specificare l’assenza di parentela col più famoso Marzullo – e fa bene. Per l’ennesima volta siamo nella borgata romana, ma la questione è un po’ diversa dal solito: “Il viaggio notturno dell’anima di quattro ragazzi alla soglia dei trent’anni che non vogliono rinunciare alle proprie passioni”, recita la sinossi nel pressbook. Uscendo dalla retorica necessaria per sunteggiare una storia, abbiamo appunto quattro tipi alle porte dei trenta che vengono indicati senza nome, solo per quello che fanno (meccanico, paninaro ecc.).

C’è una hostess bella e algida, che quando non opera in aereo va a ballare da sola in discoteca o consuma fugaci scopate in stanze di albergo, ricordando un po’ l’Adèle Exarchopoulos di Zero Fucks Given, splendido ritratto delle assistenti di volo con la loro precarietà esistenziale, ma con ancora meno sentimenti della collega. C’è una coppia che lavora nella cucina di un ristorante, due aspiranti musicisti falliti costretti a cucinare in nero per un padrone pezzo di merda, portati a litigare tra loro, anche brutalmente, lasciarsi e riprendersi. E poi c’è la figura più inquietante, quella di Giuseppe Cristiano, una specie di attore ormai totalmente atarassico, senza passioni, senza scosse, che consuma sesso occasionale e perlopiù sta zitto, lasciando parlare l’amico meccanico sfigato raffigurato in Daniel Montesi. Tutti costoro, ovviamente, non credono in niente, come da titolo: il nichilismo non è una presa di posizione ideologica, anzi tutt’altro, si dibattono come pesci in un acquario mentre l’acqua si asciuga. Non hanno più vent’anni, lo dicono loro, quindi sono le ultime bracciate nuotando verso il fallimento. Le parabole restano slegate tra loro, ma tutti convergono a turno verso il chiosco di un paninaro, personaggio memorabile, che a proposito di cinema italiano rilascia una vera e propria dichiarazione di intenti: “So’ tutti raccomandati in questo paese der cazzo! Non ci sono più gli artisti de ‘na vorta… Adesso ci sono sempre le stesse facce, ma chi se li straincula? A me m’hanno rotto er cazzo! Al cinema non ce vado più!”. Chiaro?

Non credo in niente è stato girato nell’arco di tredici notti spalmate in otto mesi, con un budget molto ridotto, attraverso un lavoro di montaggio che ha cucito insieme due corti incastonandoli nella stessa cornice e rendendoli un lungo. Da “un puzzle di frammenti senza forma” è germogliata “una storia di sogni perduti”, dice il regista. Da parte sua Marzullo, classe 1993, ha girato in 16 mm per poi riversare le immagini in DCP, ottenendo così uno spartito visivo originale e peculiare. Esagerando si cita il primo Wong Kar-wai, l’Hong Kong scolpita al neon di Angeli perduti, ma anche senza voli pindarici il racconto si divide tra momenti narrativi e squarci rarefatti, astratti, come quelli in cui Demetra Bellina danza, e in effetti l’attrice è ipnotica, ti incolla al suo viso di ghiaccio. Poi nei rispettivi percorsi ci sono alcune imperfezioni, e vorrei vedere, ma passano decisamente in secondo piano rispetto a quello che il film sa dare: un ritratto fallito e disperato, anche un po’ stronzo, dei “trenta e qualcosa” di oggi che non hanno punti di riferimento né possono averli, sia per colpa del mondo intorno che li ha già schiacciati, sia per la loro indolente impotenza. Ci fanno pena, ma è anche colpa loro. La profondità del nichilismo mi ha ricordato I Giganti di Bonifacio Angius. Ed è un complimento. Tutt’altro film, certo, ma entrambi non credono in niente perché hanno capito bene come stanno le cose.