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Non aprite quella porta 3D

2013
Titolo Originale:
Texas Chainsaw 3D
REGIA:
John Luessenhop
CAST:
Alexandra Daddario (Heather
Miller/Edith Rose Sawyer)
Tania Raymonde (Nikki)

Il nostro giudizio

Non aprite quella porta 3D è un film del 2013 diretto da John Luessenhop.

Leggevo da qualche parte, un po’ di tempo fa – ma giuro, non ricordo esattamente dove, se in rete o in un libro o su una rivista: il detentore del copyright mi perdoni; d’altronde, le buone idee a un certo punto vivono di vita propria e diventano patrimonio universale  – un’interessante dissertazione a proposito di Non aprite quella porta: il primo film, quello del 1974, la pietra dello scandalo. Si trattava di una tesi ricercata, supportata da considerazioni di tipo scientifico ma anche da nozioni esoteriche e astrologiche, a proposito dell’importanza del Sole e della luce in quella storia piena di cose che con il “Chiaro” sembrerebbero invece non avere assolutamente niente a che fare: la carne morta, la decomposizione, il marciume, lo sporco e la puzza –  che fa parte dell’aura sensoriale del film più che di qualsiasi altro film (e lo sentiamo, l’odore nauseabondo e ferroso del sangue raggrumatosi, il fetore dei resti delle bestie –  animali, uomini – macellate, l’afrore insostenibile di quelle galline appese nelle gabbie come canarini, dentro l’orrenda casa dei Sawyer). Il Sole è la grande novità che Hooper fa sorgere all’interno dell’horror, una rivoluzione in qualche modo copernicana.

È l’altra faccia della Notte – appunto – dei morti viventi, film con il quale Non aprite quella porta instaura rapporti notoriamente molto forti: tant’è vero che comincia su quei flash di luce che, come istantanee, squarciano il buio assoluto (la notte) rivelando dettagli necrofili e rivoltanti, con la sanie caramellata dei morti che cola… Poi, la prima immagine sensibile è esibita sotto l’assoluto imperio del sole texano: un cadavere mummificato, composto sulla croce in pietra di un cimitero, in una posa grottesca. Un programma e un proclama, è evidente: le tenebre sono finite, adesso comincia il giorno. Solo che l’astro diurno non dissipa più nessun orrore, come ci avevano insegnato – buon ultimo anche nel film di Romero, dove il ritorno della luce sembrerebbe ristabilire il primato della normalità e della civiltà sui mostri. Il Sole di Non aprite quella porta, invece, rende più vivido e definito l’abominio, lo tragitta fuori dal regno oscuro e rarefatto della trascendenza, scagliandolo in un turbine elementale di luce e di vento. I demoni si sono fatti meridiani. Poi, ecco i titoli di testa sotto i quali scorre un filmato di eruzioni solari (con la loro conclamata ridondanza malefica: ed era nell’aria; era la stessa stagione in cui Armando Crispino in Italia girava il suo allucinante film), mentre la voce di uno speaker recita un rosario di terribili nefandezze accadute da quelle parti. C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico…

Considerazioni che mi si riaffacciavano alla mente guardando l’inizio dell’ultimo anello della catena dentata della Motosega, Non aprite quella porta 3D: non per altro, ma perché i tizi che lo hanno realizzato, il regista John Luessenhop, gli sceneggiatori Kirsten Elms, Debra Sullivan e Adam Marcus, basano tutta l’entrée sul riutilizzo di scene del primo Non aprite quella porta: un collage di immagini che dovrebbero – almeno questo è quello che io, nella mia profonda semplicità, immagino – stabilire un’idea di continuità con ciò che vedremo; anche se poi, a parità di armadilli stecchiti con le zampe per aria e putride galline appese, non basta la zoologia araldica a fare la gloria del blasone. Sto dicendo una cosa ovvia: cioé che tra la semplicità del Sol Invictus dispensatore di follia e di morte degli anni Settanta e la banale complessità stroboscopica dell’ultimo Texas Chainsaw Massacre continua ad esserci di mezzo, non il mare ma l’oceano.

Ciò premesso e posto come preambolo e memento, questo stesso ultimo The Texas Chainsaw Massacre corre però il serissimo rischio di essere la migliore delle continuazioni moderne del caposaldo di Tobe Hooper. Perché cela anch’esso il suo piccolo sole rivoluzionario, un’idea vincente: Leatherface e gli altri membri della famiglia Sawyer erano degli assassini trogloditi con carne marcia al posto del cervello. Al di là dell’empatia che i nerdoni amanti dell’horror possono provare in astratto per queste figure, è logico che sullo schermo, in sala, mentre scorrono i film, si sia sempre portati a stare dalla parte di quelli che tentano di sfuggirgli dalle grinfie o che li combattono, ancorché si tratti di minus habentes che dovrebbero rappresentare la media del pubblico che paga per vedere cose del genere. Qui, invece, avviene il bouleversement strategico e, se vogliamo, geniale: prendere Leatherface e , per una serie di circostanze, farne un eroe castigamatti; trasformarlo in un buono, nella misura in cui la sua sega elettrica viene azionata per triturare gente ben più infame di lui.

La serie di circostanze comincia esattamente dove terminava il film di Hooper: quando i cittadini di Newt decidono di farsi giustizia da sé nei confronti della famiglia Sawyer e ne impallinano tutti i componenti, dando poi alle fiamme la loro casa. Scampa solo una neonata, che nessuno saprà mai essere sfuggita all’eccidio se non il padre e la madre adottivi, che se la sono portata via, ammazzando a calci la madre vera, e l’hanno cresciuta fino a un presente in cui la ragazza, Heather (Alexandra Daddario), ha una venticinquina d’ anni e lavora in un supermarket, nel reparto – ovviamente – macelleria. Oltre che nel sangue per questioni cromosomiche, ce l’ha nel suo stesso nome, per una questione di cabala, Heather, di doversi ricongiungere al quasi omofono cugino Leatherface: e il tramite è un’eredità che la ragazza si ritrova ad avere da una nonna, consistente in una grande magione sita nella cittadina texana dove tutto era cominciato e finito, a Newt. Faccia di pelle vive nella cantina di quel posto, aprendo e chiudendo la celebre e micidiale soglia di ferro, come hanno presto ad accorgersene Heather e gli altri quattro che sono con lei a prendere possesso del luogo: il suo ragazzo di colore (Trey Songz), un’amica zoccola (Tania Raymonde) che ha un flirt con il nero, il fidanzato della zoccola (Keram Malicki-Sanchez) e un fusto che la compagnia ha raccattato per strada e che è, in realtà, un ladro. Diciamo che fino a un certo punto le cose vanno come ci si aspetta che debbano andare: il motore della sega si mette in moto e comincia a falcidiare gli ospiti, a partire dal ladro, poi il tipo della zoccola, poi il nero… Muoiono tutti dei pessimi e questo è già un spia di un andazzo differente dal solito. Ma il grande turning point avviene nel momento in cui Leatherface scopre che Heather porta sul corpo il marchio della famiglia; e a quel punto è chiaro che niente può essere più come prima. Difatti, entrano in gioco i vecchi giustizieri-carnefici dei Sawyer che sono loro, adesso, il Male; mentre i due superstiti, l’uomo con la sega e la ragazza, si coalizzano, divenendo gli eroi, per combatterli.

Leggendo le interviste che Luessenhop ha rilasciato, si capisce che il tizio è allunato nel mondo dell’horror senza essere arso dal sacro fuoco della passione per il genere; che si è messo, però, diligentemente, a studiare la serie e ha cercato di cavarne fuori un film che non apparisse tanto scontato. Ce l’ha fatta, senza che questo implichi grandi eclettismi o virtuosismi registici, perché non è così (anzi: qua e là è pure un po’ rozzo) ma al prodotto bastava, perché funzionasse, un’esecuzione corretta al servizio dell’idea d’acciaio di cui abbiamo detto. Comunque: se ne esce dopo essersi presi un bel bagno di sangue e se davvero la versione andata in sala è castigata rispetto al montaggio originale, c’è da attendersi una pubblicazione in home video di forte e grandguignolesca sostanza.

Il nuovo Leatherface si chiama Dan Yeager, è alto poco meno di due metri e ha un make-up che non lascia affatto a desiderare: nella prima parte fa benissimo tutto quello che deve come da scaletta, con un picco durante l’incursione in un luna park dove si trova di fronte uno camuffato da Leatherface (ma nel theatrical cut, a dir vero, della scena si capisce poco). Alexandra Daddario è di origini metà ceche e metà italiane, bel fisico, occhi azzurri, capelli neri, anche lei piuttosto alta, ricorda qualcosa di Ania Pieroni. Quanto al Faccia di pelle storico, Gunnar Hansen, appare come il vecchio capofamiglia Sawyer nella scena dell’eccidio, all’inizio. E c’è la sorpresa di ritrovare anche Marylin Burns, la grande vittima del primo film, in un cammeo.