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Nocebo

2022
REGIA:
Lorcan Finnegan
CAST:
Eva Green (Christine)
Mark Strong (Felix)
Chai Fonacier (Diana)

Il nostro giudizio

Nocebo è un film del 2022, diretto da Lorcan Finnegan.

 Fra tutte le emozioni che il cinema è in grado di evocare, l’inquietudine è certamente una fra le più ostiche. Se infatti il ribrezzo, lo spavento o la semplice paura si dimostrano spesso, con i loro furbissimi jumpscare, nulla più che trucchetti effimeri ed estemporanei, l’inquietudine, se ben congegnata, possiede la straordinaria capacità d’infestare interamente un qualunque film. Ed è proprio come un inquietate e brulicante parassita che potremmo figurarci Nocebo: un visionario, allucinante e allegorico viaggio di sola andata in un incubo paranoico nel quale misticismo, turbe mentali e oscuri traumi del passato corrodono dall’interno ogni singola inquadratura, zampettando nei più tenebrosi anfratti della coscienza e imprimendosi dolorosamente sotto pelle così come quei misteriosi e schifidi insettini che, per oltre novanta minuti, non smettono di sbucare a tradimento laddove meno te lo aspetteresti. Un’opera inquieta ed inquietante quella partorita da Lorcan Finnegan, folle ed enigmatico cineasta irlandese che, fin dall’ansiogeno esordio nei boschivi labirinti della mente di Without Name – e ancor prima con la scioccante dark tale domestica in quindici tesissimi minuti di Foxes – ha dimostrato di saper gestire l’esoterico potere dell’inquietudine con maestria e intelligenza. Se, infatti, nel precedente allucinante Vivarium il pazzo Finnegan era riuscito a dipingere un dispotico ed enigmatico quadretto familiare debitore tanto del criptico surrealismo lynchiano quanto dei perturbanti universi pittorici di Magritte, stavolta, con Nocebo,  sembra aver voluto guardare dritto in faccia l’Aronofsky più ermetico e paranoico, senza dimenticarsi qualche rapida strizzata d’occhio alla viscerale e visionaria carnalità distorta di un Croneneberg primissima maniera.

Ne scaturisce, dunque, un’opera tanto di testa quanto di pancia, decisamente meno ermetica della precedente ma egualmente capace di apparire, ad una primissima superficiale visione, indubbiamente molto più indecifrabile di quanto realmente non sia. Un racconto allucinante e allucinato, caricato quasi interamente sulle fragili e sconquassate spalle di una Eva Green insolitamente spogliata dei consueti conturbanti panni da fascinosa femme fatale, ridotta qui a nulla più che a un pallido, emaciato scricciolo di donna. Un sudaticcio e dolorante cadavere deambulante che, così come la Julienne Moore di Safe e la Ashley Judd di Bug, si trova piagato da un subliminale decadimento psicofisico la cui vera causa, più che in qualche misterioso agente esterno, andrebbe forse ricercata nella mente incrinata della stessa paziente. E’ lei infatti a vestire gli ormai smunti panni di Christine, un tempo celebre e affermata stilista per l’infanzia costretta da qualche tempo a dover fare i conti con una nuova debilitante condizione dominata da stanchezza cronica, pesanti amnesie, improvvise eruzioni cutanee e terribili attacchi di panico che la costringono a dormire solo con l’ausilio di un’inquietante maschera per l’ossigeno. Il tutto parrebbe aver avuto origine, non si sa bene come e perché, da un’oscura e repellente visione avuta tempo addietro durante una sfilata, nonostante le certezze, in una tale situazione, appaiano tutt’altro che incrollabili, così come sembrano pesare anche il disorientato marito Felix (Mark Strong) e la cinica figlioletta Bobs (Billie Gadsdon). Ma tutto sembra destinato a cambiare in seguito all’improvvisa venuta dell’apparentemente premurosa Diana (Chai Fonancier), giovanissima ragazza filippina giunta dal nulla per prestare le proprie equivoche cure a Christine, nonostante nessuno pare ricordare di averla ingaggiata.

 Ed è proprio questa misteriosa straniera che, così come l’enigmatico forestiero dell’altrettanto allegorico Teorema pasolininao, inizierà a gettare scompiglio all’interno della tutt’altro che ridente famigliola alto borghese, utilizzando le sue oscure capacità da guaritrice per esercitare un insano controllo nei confronti della complessata padrona di casa, rendendola sempre più dipendente dai propri mistici rituali pagani tramite un malsano potere di suggestione che sembra voler riscuotere il pegno di un terribile evento traumatico celato nelle ancora fresche nebbie di un passato tutt’altro che remoto e dimenticato. Così come in molte recenti pellicole dedicate all’ambiguo universo della ritualità mistica orientaleggiante (Impetigore, Incantation e il terrificante The Medium) è per l’appunto la suggestione il vero corpo centrale attorno al quale ruota Nocebo, titolo che già di per sé fa riferimento al celebre fenomeno di “inganno” medico – antitetico rispetto al ben più celebre placebo – secondo cui determinate pratiche o sostanze, pur senza possedere una reale capacità tossica, possono generale delle terribili conseguenze psicosomatiche per il solo fatto di essere ritenute nocive da pazienti particolarmente impressionabili. E non vi è alcun dubbio che la nostra Christine influenzabile lo sia parecchio, al punto da figurarsi un infernale cane rognoso di tutt’altro che vaga fulciana memoria ricoperto da mostruosi parassiti che parrebbero aver filiato nientemeno che nel corpo della stessa donna, generando un’autentica paranoia da body horror la cui autenticità non potrà che essere continuamente messa in discussione per l’intera durata della pellicola. E’ appunto sul lisergico spaesamento generato dall’ambiguità che Finnegan costruisce la propria criptica creatura, andando ben al di là dei limiti di un perturbante psycho-thriller come Goodnight Mommy ma senza cedere alle lusinghe di quel surrealismo a briglia sciolta che avevano portato un’opera affascinante e altrettanto enigmatica come Hatching ad affogare nel suo stesso esoterico simbolismo. Nocebo dipinge infatti un quadro terribilmente inquietante e malsano la cui coerenza narrativa, seppur inizialmente solo apparentemente labile, finisce con l’assumere sempre più forza e compattezza con il procedere dei minuti, finendo per decriptare l’oscuro e terribile dilemma che ne sta alla base senza tuttavia rinunciare a quel pizzico di mistica allegoria capace di rimescolare nuovamente in le carte in tavola. “Se non ci credi non può farti male” recita un celebre credo della pratica Voodoo. Ed appunto contro questo atto di fede distorta che l’altrettanto distorta protagonista è costretta a confrontarsi, attaccandosi, proprio come una zecca, alla speranza di una qualche magica ed oscura salvezza, stando però ben attenta a non finire anch’essa estirpata e bruciata come un qualunque insignificante insetto molesto.