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Nessuno ti salverà

2023
Titolo Originale:
No One Will Save You
REGIA:
Brian Duffield
CAST:
Kaitlyn Dever (Brynn)
Elizabeth Kaluev (Brynn da giovane)
Zack Duhame (postino)

Il nostro giudizio

Nessuno ti salverà è un film del 2023, diretto da Brian Duffield.

Silenzio, si gira! Questo deve aver detto ma soprattutto pensato quel gran volpone di Brian Duffield ben prima di battere il fatidico ciak della sua azzardata – e sconclusionata – opera seconda. Forse non del tutto conscio di aver sfornato, con Nessuno ti salverà, uno degli Oggetti Cinematografici Non Meglio Identificati più curiosi e potenzialmente divisivi degli ultimi tempacci. Un’autentica sorpresa che, oltre a rimbalzare dalla sci-fi più o meno pura al dramma esistenziale con la stessa frenesia di una partita di Space Invaders, non sembra aver bisogno di molte parole per andare dritta al sodo. Non certo L’ultima follia di Mel Brooks, insomma, ma piuttosto l’altrettanto folle e chiacchierata ultima fatica di un piccolo genietto dello storytelling contemporaneo che, a ben quarant’anni dal bessoniano Dernier Combat, s’azzarda a imbastire novanta fanta minuti che di scientifico hanno ben poco; nel corso dei quali, strano ma vero, neanche una parola verrà pronunciata. Beh, giusto una: quel “I’m Sorry” che racchiude in sé tutta la sofferente catarsi di un senso di colpa che solo un’invasione di esseri umanoidi From Outer Space parrebbe, se non curare, quantomeno poter lenire.

D’altronde, a cominciare dall’aleatorietà del suo titolo, Nessuno ti salverà non è solo l’ennesimo racconto d’incontri estremamente ravvicinati del Terzo o Quarto Tipo. Men che meno l’inusuale home alien invasion che la furbesca locandina e il primo ingannevole atto farebbero presagire. No signori: si tratta innanzitutto della storia di Brynn (Kaitlyn Dever); giovane, bella e spensierata pulzella prigioniera – dentro e fuor di metafora – di una grande e sperduta casetta ai confini non della realtà ma della boschiva campagna, nella quale abbandonarsi, tutta sola soletta, alla grande passione per il cucito e a una perturbante ossessione per un anacronistico feticismo anni ’50. Ma è proprio in questo apparentemente idilliaco A Quiet Place dominato da vestitini floreali, vecchi vinili di Ruby Murray e telefoni a disco che iniziano a intravedersi le profonde crepe di un trauma le cui radici paiono affondare in un doloroso e tutt’altro che remoto passato fatto di visite ad un’ancora fresca tomba materna, lettere di ammenda scritte (rigorosamente a mano) ad un’amica nebulosa quanto un fantasma e sporadiche sortite in seno ad una cittadina che, nonostante venga riprodotta con amorevole cura naïf all’interno di splendidi diorami casalinghi – decisamente meno  particolareggiati ma altrettanto sibillini di quelli imbastiti dalla Tony Colette di Hereditary –, alla fine si rivela piena zeppa di gentaglia ostile pronta, non si sa bene perché, a sputargli letteralmente in faccia.

Ma un perché esiste sempre in ogni cosa: anche in un’inaspettata sortita a domicilio organizzata da un agguerrito plotone di Body Snatchers sul cui ingenuo outfit da classici Grigi alla X-Files potremmo star qui a discutere per ore. Anche se, detto fra noi, tanto il caustico Ultimo Terrestre di Gipi quanto l’irriverente Paul di Mottola ci hanno insegnato come l’alieno, lungi dal dover essere preso alla lettera, si presti piuttosto a divenire metafora di qualcosa di ben Altro. Che sia una forza divina – come suggerito dall’entusiastica esegesi di del Toro – piuttosto che l’ombra lunga dello stigma sociale – volendo dar retta all’accorato endorsement ad opera nientemeno che del maestro Stephen King – non sta certo a noi dirlo, quanto piuttosto all’ispirata penna e all’altrettanto suggestiva regia di un Duffield che, dopo aver versato fiumi d’inchiostro dietro interessanti progettini quali Jane Got a Gun, The Babysitter, Underwater e il geniale Love and Monsters, al suo secondo sguardo in macchina dopo il surreale Spontaneous ci consegna un’opera solo apparentemente ingenua e derivativa. Un racconto estremamente criptico e suggestivo, tanto ermetico nella sua stratificata lettura quanto affascinante seppur sottilmente pretenzioso e, a conti fatti, inevitabilmente imperfetto. Il racconto di un’anima umana percepita come aliena nel suo stesso animo e dalla sua stessa società, per la quale L’immensità della notte e gli occasionali visitatori (o invasori) spaziali saranno, di fatto, l’ultima delle Interferenze. E per un film che in un’ora e mezza non favella quasi per nulla, beh, ad aver voglia e pazienza ci sarebbe ancora molto da dire.