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Nahzar

2020
REGIA:
Paolo Treviso
CAST:
Italo Diodato (Nahzar)
Angelo Losito (Narratore)
Giulia Michelucci (Giovane tossica miracolata)

Il nostro giudizio

Nahzar è un film del 2020, diretto da Paolo Treviso.

L’arte del racconto, anche di quello cinematografico, risiede, tra le tante cose, nell’immaginazione di un’ipotesi. Essa può essere interessante e/o stimolante a seconda della sua portata, ma soprattutto si rifà all’esperienza, quantomeno al sentito dire. E quindi la domanda, che in questo caso è: cosa succederebbe se un nuovo messia si palesasse in questo mondo? A porsi il dilemma è stato Paolo Treviso, insieme al suo co-sceneggiatore Italo Diodato. Treviso (Doggo and the Shotgun Choir, Crappy Toilet), con uno stile che lo rende e lo renderà negli anni ancora più riconoscibile, proietta il suo “Ecce Homo” in un contesto atemporale e non geografico, una sorta di nuova epoca buia dove uomini e donne vagano persi per le strade. Il mondo sembra aver incontrato una fine e lo possiamo vedere nella decadenza dei luoghi, diroccati e abbandonati: humus perfetto per la venuta di un Maestro portatore di luce. Nahzar, appunto, che la voce narrante ci descrive come l’uomo destinato a comparire più volte, in diverse forme, nella storia umana. Il film sceglie la strada della suddivisione e della frammentarietà, come a replicare i passi narrativamente indipendenti delle sacre scritture.

Ed è così che anche Nahzar affronta le sue prove e racconta le sue parabole: non un copia e incolla, visto che le fonti d’ispirazione sono estremamente variegate; piuttosto una rinnovata e aggiornata messa in scena, come la sequenza della Tentazione, ambientata in un sordido bagno pubblico. Vi è, inoltre, il grottesco e il surreale a contraddistinguere un neo-simbolismo che non è mai gratuito o improvvisato: lo vediamo nel rivisitato battesimo con il mestruo e nella trasfigurazione dal rospo. Nahzar ci appare come un profeta terreno, umano ma provvisto di una saggezza e lungimiranza che rasentano il divino: scopre inganni e dispensa verità più concrete che astratte. La parabola del pescatore e il dialogo con l’uomo ricco, oltre a essere echi di voci che rimbombano nei tempi e nei templi, (si) rivelano come se fossero ascoltate per la prima volta (e probabilmente è così). Merito, dunque, di una sceneggiatura studiata nel minimo dettaglio, coraggiosa sia nella teoria che nella pratica. Nahzar è, poi, un collage di volti e di sguardi che, nel bianco e nero dell’immagine, riporta alla memoria, cerebrale, Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini: un’idea di sacro che finalmente incontra la normalità e l’ordinarietà, oltre che la naturalezza, dei corpi e dei luoghi.

E quindi perché indugiare dell’altro, se non per tirare le fila sulla figura di questo contemporaneo messia urbano? Treviso, laddove non può e non vuole raccontare una storia diversa rispetto all’originale, spinge l’acceleratore sulla fantasia. Nahzar, infatti, è vittima e artefice del proprio destino, lo stesso che hanno dovuto subire le altre voci che predicano nel deserto. Inevitabile dunque il Golgota e il martirio, stavolta sulla cima di un poetico tetto di un alto palazzo dove la giustizia umana, crudelmente, ripropone con metodicità le antiche leggi del taglione. Il Male ha raccontato il fatale epilogo dell’Homo e di tutta l’umanità che in lui ha creduto ciecamente, oltre alla fine del suo unico vero miracolo. Saranno di nuovo il caos e la morte. Sarà di nuovo il Male, materia misteriosa per gli Eterni perché, Nahzar docet, semplice invenzione degli esseri umani. Un Messia, un salvatore o soltanto un grande uomo, in fondo, sono solo uno sfuggente spiraglio di luce nell’eterna tenebra che avvolge l’esistenza umana.