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Mulholland Drive

2001
Titolo Originale:
Mulholland Dr.
REGIA:
David Lynch
CAST:
Naomi Watts (Betty Elms / Diane Selwyn)
Laura Harring (Rita / Camilla Rhodes)
Justin Theroux (Adam Kesher)

Il nostro giudizio

Mulholland Drive è un film del 2001 diretto da David Lynch

Quando si parla di Mulholland Drive, tutti hanno una propria soluzione. È tutto un sogno, è un viaggio tra realtà parallele che si sovrappongono, è l’ennesima opera incomprensibile di un pazzo a cui han rifilato una macchina da presa… tutto vero, tutto falso. Sarà scontato dirlo, ma Mulholland Drive è un film che più di altri necessita della partecipazione dello spettatore, della sua completa attenzione, della sua esperienza per ottenere significato. Insomma, Mulholland Drive è un film interattivo. Siamo dalle parti delle care, gloriose, avventure grafiche degli anni ’90, dove la storia ha un inizio e una fine prestabiliti; ma come percorrere questa strada spetta totalmente al giocatore. Lo suggerisce David Lynch stesso: «Alcuni hanno uno spirito letterale e temono le astrazioni. Si sentono perduti. Vogliono che 2 + 2 = 4. Ce ne sono altri, più intuitivi, che non domandano di meglio che perdersi. Quelli si concedono all’esperienza e arrivano a 4 attraverso altri percorsi». (David Lynch intervistato su Positif n. 490, dicembre 2001). In Mulholland Drive non abbiamo pulsanti da premere, oggetti da cercare o linee di dialogo da pronunciare, il nostro compito è trovare una via per la soluzione finale, che in realtà, per quanto riguarda almeno la fabula, non è così intricata come sembra. La bionda Diane (Naomi Watts), con i soldi della zia morta e sull’onda dell’entusiasmo per aver vinto una gara di ballo jitterbug, è arrivata a Los Angeles cercando fortuna a Hollywood. Si ritrova invece a fare la cameriera, ma almeno conosce la sensuale Camilla (Laura Harring), attrice in ascesa, con la quale vive un’intensa relazione lesbica. Camilla, però, preferisce la compagnia del regista Adam (Justin Theroux), che sposa per fare carriera, rompendo con Diane che non la prende bene, tanto da decidere di assoldare un killer e farla ammazzare. A cose fatte, disperata, Diane sogna gli ultimi giorni della sua vita mescolando fatti, volti, nomi, luoghi, oggetti e rivivendoli come se fosse un film, per poi spararsi in testa in preda al rimorso. Bum! Pare tutto risolto; qual è il mistero allora? Semplice, tutto il resto.

Dapprima nel mescolamento temporale proposto da Lynch, con i primi due terzi di film dedicati esclusivamente al sogno di Diane e solo in seguito a ciò che pare effettivamente successo, cosa che crea un fortissimo spaesamento (almeno alla prima visione) anche perché quanto viene raccontato è tutta un’altra cosa. Ovvero: un’avvenente mora (Laura Harring) scampa a un incidente automobilistico, ma le contusioni le hanno provocato un’amnesia quasi totale. Trova riparo nell’appartamento della zia di Betty, al momento occupato da quest’ultima (Naomi Watts), appena giunta a Los Angeles per fare l’attrice. Betty decide di aiutare la smemorata (che si chiama provvisoriamente Rita), un po’ perché se ne è innamorata, un po’ perché nella borsa ha un sacco di soldi e una strana chiave blu triangolare. Mentre il regista Adam (Justine Theroux) si vede rovinare la vita da dei produttori/gangsters, durante le loro indagini Betty e Rita si imbattono nel cadavere di una donna chiamata Diane e in un locale, il Club Silencio. Dopo aver assistito a uno spettacolo, Betty trova nella borsetta un cubo blu, che pare aprirsi con la chiave triangolare. Rita apre il cubo, tutto scompare e il film ricomincia nella stanza da letto di Diane, con la sua storia “parallela”. La faccenda comincia a farsi complicata, e senza tirare poi in ballo tutti i personaggi e i fatti di contorno che imperversano sia nella parte “sognata” che in quella “reale”.

La concatenazione, cronologica o meno, delle sequenze, micro o macro che siano, indica una progettualità, uno sviluppo predeterminato, e quindi un percorso, con una sua (almeno presunta) fine e un suo scopo. Sta allo spettatore/giocatore trovarlo, senza alcun indizio se non quanto si vede sullo schermo e la (quasi) certezza che, ben nascosto da qualche parte, un senso a tutto c’è, uno qualsiasi. Certo, ci sono delle cut-scene, sequenze cui bisogna per forza passare per proseguire con il gioco, come lo spettacolo in playback al Club Silencio e l’apertura del cubo blu, che ci piace immaginare di Schroedinger, scatola con dentro (o forse no) il celebre gatto vivo e morto, contenitore di realtà simultanee e ghignanti demoni prezzolati, slot machine quantistica che rimescola le carte e fa ripartire il gioco. Mulholland Drive è un open world dove possiamo muoverci a piacimento per ricollegare fatti, luoghi, nomi, frasi che ci indichino la direzione verso il prossimo mistero, nella speranza di non dover ridiscutere quanto accertato fino allora, perché come in un’avventura grafica, c’è il rischio fortissimo di incartarsi, di seguire una strada e trovarsela sbarrata subito dietro una curva, di arrivare al game over e dover ricominciare nel migliore dei casi dall’ultimo “save”. E in questi casi, l’unica è giocare di nuovo, e ancora, e ancora. Fosse davvero un videogame, Mulholland Drive avrebbe una rigiocabilità pazzesca. Come minimo.