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Mon père, le diable

2021
REGIA:
Ellie Foumbi
CAST:
Babetida Sadjo (Marie)
Souleymane Sy Savane (Padre Patrick / Sogo)
Jennifer Tchiakpe (Nadia)

Il nostro giudizio

Mon père, le diable è un film del 2021, diretto da  Ellie Foumbi.

La regista camerunense Ellie Foumbi, attiva da anni a New York e con una solida gavetta fatta di corti e partecipazioni festivaliere, esordisce nel lungometraggio con il nerissimo e potente Mon père, le diable, un’opera prima che lascia il segno, presentata a Venezia78 nella sezione Biennale College. Autrice a tutto tondo – scrive anche soggetto e sceneggiatura – la Foumbi dimostra una notevole conoscenza della tecnica cinematografica, e una forza narrativa per niente scontata, per cui riesce a mettere in piedi un dramma psicologico che tratta la piaga della guerra e la vendetta con le cadenze di un thriller in piena regola (non è azzardato tirare in ballo il modello polanskiano de La morte e la fanciulla). Protagonista è la giovane Marie (Babetida Sadjo), una rifugiata africana che vive in un paesino nel Sud della Francia e lavora come cuoca e inserviente in una casa di riposo: la sua tranquillità viene però sconvolta quando nell’istituto incontra Padre Patrick (Souleymane Sy Savane), un prete cattolico di colore che lei sembra conoscere molto bene, e che le riporta alla mente un passato traumatico. In preda a una lucida follia, lo stordisce in cucina colpendolo con una padella e lo sequestra, portandolo in una baita in collina che le è stata lasciata in eredità da un’anziana signora. Dopo averlo legato, inizia con lui una sorta di interrogatorio inframmezzato da torture, poiché la giovane lo identifica con un certo Sogo, un uomo che anni prima uccise la sua famiglia nel villaggio africano dove viveva. Inizialmente il prete nega di essere l’uomo in questione, ma Marie scoprirà presto di avere ragione.

Mon père, le diable è un film scioccante fin dal titolo, dove la regista identifica il “padre” – inteso non come padre biologico ma nell’accezione di “prete” – come il diavolo: quello espresso dalla Foumbi è un Male immanente, che si manifesta nel cuore di tenebra dell’essere umano, un Male assoluto pronto a esplodere e a ritornare anche in tempi e luoghi lontanissimi, un fil rouge che partendo dalla guerra si trasforma in una feroce vendetta. La regia non si perde in preamboli – giusto il tempo di presentare la protagonista e alcuni personaggi di contorno, come l’amica Nadia, il corteggiatore, la donna anziana che la tratta come una figlia – dopodiché entra subito nel cuore della vicenda, mettendo in scena l’oscura figura di Padre Patrick, col suo sguardo severo e gli occhi penetranti. Il sacerdote è presentato dapprima come un’entità quasi fantasmatica, di cui sentiamo solo la voce senza vederlo in volto, mentre le inquadrature indugiano sui primi piani terrorizzati di Marie, come a farci presagire che il Male è lì, e che qualcosa di terribile sta per accadere – impressione sostenuta, in precedenza, anche dal dettaglio di una cicatrice sul corpo della ragazza. Il grosso del film, sia a livello temporale che contenutistico, è incentrato sul durissimo confronto fra Marie e il suo vecchio carnefice, in una serie di sequenze ricche di dialoghi dove i due ruoli si sono invertiti – per questo si citava La morte e la fanciulla, da cui sembra riprendere il nucleo della trama e della struttura: la donna assiste compiaciuta alle sofferenze del suo prigioniero legato, tra dialoghi taglienti, torture fisiche e psicologiche, in quello che diventa man mano un vero e proprio revenge-movie, mentre la protagonista prosegue normalmente la sua vita.

Ellie Faoumbi, grazie anche alle interpretazioni viscerali ed emotivamente intense dei due protagonisti, guarda in faccia l’orrore, come il colonnello Kurtz di Apocalypse Now (giusto per tornare a Conrad): non scivola però nella facile esibizione della crudeltà, per cui alle violente percosse sul corpo dell’uomo alterna scelte di montaggio raffinate, come l’accostamento tra la lama arroventata e la carne tagliata in cucina, con le urla in sottofondo. Ma l’orrore vero non sta tanto in quello che vediamo, bensì in quello che Marie racconta di aver subito per mano di Sogo, con dovizia di dettagli: il massacro del villaggio, lo sterminio della sua famiglia, lo stupro, la trasformazione di lei stessa in una donna soldato che ha compiuto azioni orribili. Padre Patrick e Sogo sono dunque la stessa persona? Questo quesito essenziale – che per un po’ mantiene i contorni del giallo, fino a farci scoprire che Marie non si è sbagliata – diventa un interrogativo più profondo che cresce nel confronto sempre più serrato fra i due: può un criminale di guerra cambiare vita e anima e diventare un uomo di Chiesa? Il confine tra Bene e Male è sempre tracciabile? La vendetta è eticamente accettabile? Mon père, le diable è anche e soprattutto un invito alla riflessione su queste tematiche complesse, attraverso un climax che si risolve a sorpresa in un finale forse troppo accomodante e buonista, ma che vuole essere probabilmente un segnale di speranza in un universo marchiato ontologicamente dal Male. Per niente scontato, in una regista semi-esordiente, è infine anche il comparto tecnico ed estetico curatissimo: una fotografia marcatamente cinematografica (pensiamo ai toni caldi della baita-prigione), inquadrature che insistono sui primi piani e scelte di montaggio innovative contribuiscono a fare di Mon père, le diable un esordio autoriale di notevole interesse.

 

(recensione pubblicata precedentemente su Cinefilia Ritrovata)