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Milano rovente

1973
Titolo Originale:
Milano rovente
REGIA:
Umberto Lenzi
CAST:
Antonio Sabàto (Salvatore Cangemi)
Philippe Leroy (Roger Daverty)
Marisa Mell (Jasmina)

Il nostro giudizio

Milano rovente è un film del 1973, diretto da Umberto Lenzi.

Veniamo subito al punto: Milano rovente è l’esatto momento di sintesi tra sfumature sociologiche ed esistenzialismo criminale del nero italiano dei Settanta. Perché? Il meccanismo sublime di Milano calibro 9, di cui il film di Umberto Lenzi, colpevolmente tra i meno citati del regista toscano, è, nello stesso tempo, conseguenza commerciale ed ampliamento in termini di costume, è talmente elegiaco nel pennellare tratti di romanticismo criminale che assume la consistenza del poema epico e, come tutti i poemi, si distacca dal reale e diventa qualcosa di unico ed incorruttibile. Milano rovente lavora più in basso, si sporca le mani tratteggiando la faida feroce e sgangherata tra gli uomini di Salvatore Cangemi, un emigrato siculo che dal nulla è diventato il capo di un’organizzazione criminale dedita al controllo della prostituzione, e Daverty, “le Capitain”, il cui intento è quello di convincere un riluttante Cangemi ad utilizzare il proprio giro di puttane per distribuire capillarmente l’eroina che riesce a far entrare illegalmente dalla Francia. Rem tene, verba sequentur diceva qualcuno tra i latini, e l’“argomento” Lenzi lo possiede sul serio e ne darà dimostrazione (coi fatti, non solo a parole) più di una volta nella sua carriera: qui la penna del regista e di Franco Enna, autori della sceneggiatura, descrive una Milano oramai completamente meridionalizzata e, nello stesso tempo, dal respiro criminale internazionale e proprio la città, cupa e notturna come e prima della New York di Taxi driver, diventa il tessuto marcio su cui far proliferare un certo tipo di mentalità criminale che prende spunto dall’attualità, vedi il Cangemi di Antonio Sabàto, la cui figura ricorda vagamente quella di Francis Turatello, attivo in quegli anni a Milano.

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Se il racconto è di frequente inframmezzato da eccessi nella rappresentazione di alcuni stereotipi (certi aspetti della figura del Balsamo di Tano Cimarosa, la rivalsa del siculo che trova nell’attività criminale il grimaldello per diventare qualcuno, il rapporto tra Cangemi e la madre e l’ossessione del ritorno al “paese”) e l’utilizzo di alcune figure narrative può risultare forzoso (la Jasmine di Marisa Mell, a cui manca la carica ambigua di una Bouchet), l’efficacia della narrazione sta proprio nella sua genuinità che coniuga candidamente temi prettamente noir come la lotta contro il destino ed il rapporto con la morte con le dinamiche sociali di certa fauna criminale delle grandi città post boom industriale, collusa con la politica e ben protetta contro la polizia, immergendo il tutto in un’efficace bagno di violenza, di cui alcuni episodi, su tutti gli sfregi, le cinghiate, le sigarette spente sulla pelle, il taglio dei capezzoli subiti dalle lucciole gestite dai siciliani e la tortura a base di scariche elettriche sui genitali di Lino Caruso (un bravissimo Antonio Casagrande), quantomeno pareggiano in efferatezza alcuni aspetti del successivo e seminale Milano odia: la polizia non può sparare.

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E la riprova che il narrato visto tra i locali notturni e le periferie di Milano, il mercato ortofrutticolo e gli appartamenti kitsch, sia il dilettantesco dimenarsi di una delinquenza dal respiro pur sempre provinciale è il risultato dell’insinuarsi nella faida del mafioso Billy Barone il quale, forte della sua esperienza americana, viene richiamato dai siciliani dal suo temporaneo esilio nell’isola: «My boy, i tempi di Al Capone sono passati da un pezzo, adesso quello che ci vuole è la diplomazia…», spiega innocentemente a Cangemi il personaggio che ha volto e movenze di Alessandro Sperlì. America che, come sempre, entra di traverso in quasi tutti i neri italiani, nella doppia veste di modello irraggiungibile («Totò, non possiamo tirare fuori il mitra, qui non siamo a Nuova York» suggerisce Linuzzo al suo capo Cangemi) e, al contempo, aspirazione irrinunciabile: «Eccola lì, guardatela, è veramente una piccola Chicago…», afferma fieramente Barone dopo che, in una ben costruita scena finale, Cangemi, dopo aver fatto fuori l’amico Linuzzo che l’aveva tradito, viene crivellato di colpi come James Caan nel Padrino, il tutto non prima di aver constatato coi suoi occhi l’avvenuta morte del padrone di casa, quel “Capitain” di Philippe Leroy che, tra sottili finezze e grossolani punti deboli, portava con sé anche il fardello di discutibili gusti sessuali.