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May

2002
Titolo Originale:
May
REGIA:
Lucky McKee
CAST:
Angela Bettis (May Dove Canady)
Jeremy Sisto (Adam Stubbs)
Anna Faris (Polly)

Il nostro giudizio

May è un film del 2002, diretto da Lucky McKee.

A chi dice che l’horror, nei primi anni Duemila, ha vissuto un periodo di magra, farei vedere questo film. Perché, tra squallidi remake di classici del genere e reboot almeno discutibili dei titoli provenienti dal Giappone, nel 2002 debuttava un signore chiamato Lucky McKee, ancora oggi uno dei volti di punta dell’horror indipendente americano. May, oltre ad essere un must per chi si dice appassionato, è quel genere di opera prima che consacra l’autore e lo impone al pubblico, così come lo può esser stato, in tempi più recenti, The Witch per Robert Eggers. A tutt’ora il miglior lavoro di McKee insieme a The Woman, May è un bellissimo e struggente racconto di solitudine ed emarginazione che mischia sapientemente tematiche di genere che spaziano da Frankestein a Freaks di Tod Browning. May (una straordinaria Angela Bettis) è difatti una freak agli occhi della società: innanzitutto per quell’occhio pigro che mette tutti a disagio e che la solita madre disfunzionale le ha indicato come un difetto che le precluderà per sempre qualsiasi amicizia. “If you can’t find a friend, make one”: è così che la bambola Suzie, tenuta obbligatoriamente dentro la scatola, diventa non solo un surrogato ma anche metafora della vita di May.

Da adulta May è come ci aspettiamo che sia: vive da sola, con il gatto e la bambola come unici interlocutori. Anni di emarginazione l’hanno resa ancora più freak, condizione mascherabile però da delle lenti capaci di correggere il difetto all’occhio e di aprirle la strada a nuovi rapporti come quelli che cercherà di sviluppare con il bell’Adam (un Jeremy Sisto dall’aura travoltiana) e la collega Polly (un’Anna Faris come non l’avete mai vista). Lucky McKee, attraverso una regia già matura, ci dipinge dunque un mondo superficiale, dove il dettaglio è più importante del totale e dove il minimo difetto può rovinare tutto. Anche May è vittima di questo pensiero, instillatole già in tenera età e che la porta a fissarsi maniacalmente su una precisa parte del corpo di chi ha davanti, che siano le belle e forti mani di Adam o il liscio e longilineo collo di Polly. Vediamo allora che la scatola di vetro contenente la bambola Suzie si sta progressivamente rompendo: immagine troppo inquietante per avere un significato positivo di apertura al mondo. La prigionia di May è in realtà ciò che la separa da una violenta esplosione d’ira senza ritorno, preannunciata dal sangue che il vetro, andato in frantumi, provoca. Incapace nel gestire i rifiuti che irrimediabilmente arrivano, la ragazza intraprenderà quella che all’apparenza è la vendetta di un’amica-amante tradita, ma dietro cui, in verità, c’è un disegno ancora più macabro e, diciamo, shelleyano.

È così che la terza ed ultima parte del film diventa la catarsi della tragedia, quella dove fanno capolino il sangue e la sconfitta. Il personaggio di May raggiunge infatti la piena consapevolezza di se e degli altri, dell’incompatibilità tra i suoi bisogni e quelli di chi le sta accanto. May soprattutto aspira ad una perfezione che nessuno le può dare, salvo in parte contribuire mettendo il proprio pezzo. Costruire l’essere, o meglio l’amico perfetto (mamma docet) rappresenta l’ultimo disperato tentativo per essere vista, accettata ed amata per come è. Lucky McKee, il dottor Frankenstein di May, nutre un’enorme compassione per la sua prima difettosa creatura e sublima questo sentimento nell’ultima toccante sequenza, dove quel sincero abbraccio tanto spasimato accompagna dolcemente l’eroina verso la sua fine.