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Matriarch

2022
REGIA:
Ben Steiner
CAST:
Jemima Rooper (Laura)
Kate Dickie (Celia)
Sarah Paul (Abi)

Il nostro giudizio

Matriarch è un film del 2022, diretto da Ben Steiner.

Ben prima dell’esoterica triade argentiana, il cinema de paura è sempre stato dominato da madri, matrigne, matrone e matriarche. Un genere per lo più femminino l’horror, in quanto proprio dal caldo e rassicurante seno materno può scaturire quel viscido, ripugnante e letale nettare capace di irrorare e nutrire i più terrificanti e innominabili incubi. Lo stesso rancido latte, avvelenato dal risentimento e dalla cattiveria, con il quale la disastrata Laura (Jemima Rooper) è stata a suo tempo cresciuta dalla gelida e dispotica Matriarch Celia (Kate Dickie) all’indomani della tragica dipartita del fu paparino, passato misteriosamente a miglior (o peggior) vita nelle oscure profondità del melmoso acquitrino celato nel cuore di un desolato paesello sperduto nella nebbiosa brughiera inglese. Un trauma di quelli che lasciano il segno, tanto da tener a debita distanza la nostra misantropa ragazzotta per oltre vent’anni, dandole così la possibilità di buttare definitivamente all’aria la propria già complessata vita a furia di alcool, droghe ed eccessi assortiti, il tutto ben celato dietro il tailleur e la coda di cavallo di un’apparente donnetta in carriera. Ma si sa: il passato non solo non muore mai, ma prima o poi tornerà a bussare alla porta con tutti i suoi fantasmi. Oppure, più semplicemente, proprio nel mezzo di una bella overdose, eccolo pronto a dare un colpetto di telefono con il quale richiamare al materno ovile, laddove il tempo sembra essersi apparentemente fermato e dove qualcosa di ancestrale e malefico sembra ribollire fra la nera torba e le rustiche casette di mattoni.

Preso atto di quanto il folk horror sia tornato prepotentemente a dominare, sia quantitativamente che qualitativamente, il panorama del cinema di genere dell’ultimo decennio, una pellicola come Matriarch – da non confondere con un altro loffio horrorino campestre all’ombra di Buckingham Palace diretto nel 2018 da tal Scott Vickers –  non può che apparire come il perfetto compitino di un esordiente cineasta come Ben Steiner che, dopo il dimenticabilissimo Monsterland 2, ha scelto furbescamente di cavalcare l’onda del collega Garland e del suo Men riportando, lovecraftianamente parlando, il pagano ed esoterico Male in quel della brughiera di Sua Maestà. Ed è appunto in questo rurale e sperduto covo dominato da astio, diffidenza e da qualcosa di antico e malevolo tanto quanto il marittimo Dagon gordoniano che la nostra ragazza interrotta, così come l’incauta collega del fulciano Offseason di Keating, viene richiamata all’ordine da quella temibile genitrice già da tempo data per morta e sepolta, vegliarda e melliflua ultraottantenne che tuttavia sembra inspiegabilmente mostrare giusto un quarto dei propri anni. Ma, a volerla dire proprio tutta, è l’intera marmaglia che popola questo incubotico borgo a non volercela raccontare proprio giusta. tra vetuste coppiette impegnate in lubriche camporelle in automobile, blasfemi rituali inneggianti ad un’oscura Madre Terra forse imparentata con la progenie di The Wicker Man e, ultima ma non ultima, una ripugnante e viscosa cancrena che pare diffondersi su tutto e su tutti come la sovrannaturale infestazione fungina protagonista del viscerale Morturary hooperiano.

Probabilmente, in un ipotetico universo cinematografico parallelo orfano di gente come Robert Eggers ed Ari Aster, un filmetto come Matriarch acquisterebbe un valore e un peso specifico certamente maggiori di quanto non meriterebbe, non fosse che per il sincero e appassionato tentativo di cavar fuori un qualcosa di minimamente disturbante e allegorico da un sottogenere che di roba stuzzicante e visionaria ce ne ha già offerta parecchia nel corso degli ultimi tempi. Al di là di un’estetica certamente suggestiva, nonostante una regia di mediocre spessore e una narrazione a scoppio ritardatissimo che promette tanto (troppo) nelle primissime battute per poi saldare i conti decisamente al di sotto delle aspettative apparecchiate, la cratura di Steiner non può che rivelare in corso d’opera tutti i limiti, primo fra tutti l’indecorosa necessità di plasmare un racconto di traumi familiari e arcane credenze popolari raccogliendo le briciole avanzate, tra gli altri, dal carnalissimo Amulet di Garai, dal rustico Moloch di van den Brink, dall’allegorico Nessuno ne uscirà vivo di Menghini e dal lovecraftiano Sacrifice del duo Mian-Collier. Un prodotto, insomma, inevitabilmente derivativo che, pescando a mani bassissime dal paganesimo esoterico della lore dello splendido Apostolo di Evans, dà vita ad una stucchevole ratatouille – resa se possibile ancora più inutilmente arzigogolata dall’immancabile criptico finale come genere comanda – sprovvista di quel pizzico di sale e aceto balsamico capaci quantomeno di far digerire un boccone decisamente insipido ancor prima che indigesto.