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Il maestro giardiniere

2022
REGIA:
Paul Schrader
CAST:
Joel Edgerton (Narvel Roth)
Sigourney Weaver (Norma Haverhill)
Quintessa Swindell (Maya)

Il nostro giudizio

Il maestro giardiniere è un film del 2022 diretto da Paul Schrader.

Ancora inedito in Italia a quasi un anno dall’anteprima alla 79a Mostra del Cinema di Venezia, Il maestro giardiniere si colloca in stretta continuità con le opere precedenti di Paul Schrader, First Reformed (2017) e The Card Counter (2021), completando un’ideale trilogia incentrata sul travaglio esistenziale di uomini solitari gravati da colpe all’apparenza irredimibili. Sicché, al reverendo in crisi Ernst Toller e all’ex carceriere di Abu Ghraib William Tell, si aggiunge il neonazista pentito Narvel Roth, capo giardiniere nella storica tenuta sudista di Gracewood, dove vive sotto protezione testimoni per aver denunciato la sua vecchia banda di estremisti bianchi. Un passato di violenza brutale che contrasta con un presente di grigio anonimato e meticolosa applicazione professionale, dove le sole concessioni sono una sigaretta al giorno e gli occasionali incontri sessuali con la proprietaria della tenuta, la ricca vedova Norma Haverhill. Quando quest’ultima gli affida l’apprendistato della giovane pronipote afroamericana, Maya, rimasta orfana e finita in un brutto giro di droga, il quieto vivere di Narvel subisce uno scossone: l’incontro con la ragazza, infatti, innesca una catena di eventi che lo porteranno ad affrontare i suoi demoni interiori, offrendogli un’inaspettata occasione di riscatto.

È di nuovo «a man in a room» – come lo descrive Schrader richiamando una figura ricorrente nel suo cinema (a partire dal celebre taxi driver scorsesiano nato dalla sua penna) –, un uomo in una stanza, quella dove Narvel trascorre le notti insonne ad annotare i pensieri su un diario, tormentato dai fantasmi di un passato che non può e non vuole cancellare, ma soltanto espiare, sottoponendosi a un regime di austerità e solitudine coatta. Una sorta di ascesi morale che trova perfetta rispondenza nell’estremo rigore formale della pellicola, dalla scrupolosa messa in scena al montaggio anti-spettacolare, passando per la recitazione in sottrazione di Joel Edgerton: altrettanti elementi riconducibili a quello stile trascendentale che Schrader ha teorizzato in gioventù e che forse mai aveva applicato così fedelmente come in questo trittico di film d’ispirazione bressoniana. Tanto da far storcere il naso a chi lo ritiene un regista di maniera e fiaccamente ripetitivo. Dimenticandosi di come proprio la riproposizione puntuale di certi stilemi e il ritorno ossessivo agli stessi temi costituiscano da sempre parte integrante della sua cifra espressiva, quasi un manifesto poetico.

Del resto, Schrader non ha mai nascosto il suo approccio schiettamente autoriale, e ancora oggi, alla soglia dei 50 anni di carriera, continua a portare avanti con coerenza le proprie idee, insistendo con un cinema certamente ricorsivo, ma non estraneo a scarti e avanzamenti di senso che ne attestano la perdurante vitalità. Come testimonia il finale di Il maestro giardiniere, in qualche modo inedito nella sua filmografia, per la grazia “piena” che accorda al suo protagonista: quella di una redenzione che non si consuma nel sangue né richiede ulteriori sacrifici, ma schiude un’autentica possibilità di rinascita. Un orizzonte di solito precluso agli eroi schraderiani, a cui Narvel invece accede grazie al perdono e all’amore corrisposto di Maya. Non senza prima aver dovuto fronteggiare l’ennesima discesa agli inferi, in un tortuoso percorso di reciproca cura e guarigione (l’uomo aiuta la ragazza a uscire dalla tossicodipendenza) che culmina nel loro reintegro a Gracewood, da dove la dispotica Norma, rosa dalla gelosia, li aveva allontanati. Un ritorno che avviene però alle proprie condizioni, configurandosi quale riconquista non solo di uno spazio, ma anche di un tempo nuovo, finalmente libero dal giogo del passato e aperto al futuro. «Il giardinaggio è una fede nel futuro», osserva Narvel nelle battute iniziali del film. Una nota di speranza infine avverata, con la quale Schrader, pur senza abbandonare l’abituale disincanto, si concede un epilogo che illumina e rinnova la sua opera.