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Martin Eden

2019
Titolo Originale:
Martin Eden
REGIA:
Pietro Marcello
CAST:
Luca Marinelli (Martin Eden)
Carlo Cecchi (Russ Brissenden)
Jessica Cressy (Elena Orsini)

Il nostro giudizio

Martin Eden è un film del 2019, diretto da Pietro Marcello.

La mia testa è un popolo di sovversivi! La mia testa è un popolo di sovversivi!” Così cantavano, 20 anni fa, i 99 Posse, dentro una canzone che si è persa, come tutto, nell’oblio. Quelle parole mi risuonavano in testa, mentre leggevo, mentre divoravo Martin Eden, alla cui lettura colpevolmente mi approcciai solo in età adulta. Ero cioè già nell’età del disincanto, ero già Martin Eden e non lo sapevo, non lo avevo ancora capito. A questo proposito, ritengo necessario che Martin Eden sia eviscerato nelle scuole di ogni ordine e grado, perché è lì che dovrebbe stare, per sempre, a forgiare le generazioni, a forgiare le genti di ogni nazione. Martin è un marinaio, abbagliato dalla luce celestiale che una classe sociale, l’aristocrazia, irradia. Spinto dall’amore, quindi dall’illusione, crede che la cultura possa riscattarlo dalle sue miserie, per consegnargli l’accesso a questo mondo di sopra, cui crede di aver diritto. Si accorge presto, a sue spese, che la cultura è conoscenza della propria e dell’altrui sorte e che alla gente fa paura. La gente non vuole piangere, non vuole sbattere il muso in faccia alla verità. Ma quello che muove Martin non è un’esigenza di verità, è una forza non governabile e distruttiva, nichilista, un anelito che è tormento, frustrazione. L’effimero è un morbo, e Martin tenta di respingerlo, senza poter fare a meno di soccombervi. Quando arriva il successo, e con esso la gratificazione quasi miracolistica, la realizzazione di ogni suo desiderio, Martin coglie la vittoria definitiva dell’effimero, e decide il gran rifiuto, il ritorno alle acqua salmastre da cui un giorno era sbarcato, caracollante e trepidante.

Questo, in poche parole, il senso del romanzo, secondo me. Un’opera universale, demiurgica, che diventa particolare. A questo deve aver pensato il temerario Pietro Marcello, nel momento in cui ha deciso di fare di Martin Eden la sua particolare visione dell’Italiano. L’archetipo dell’italiano, la cui vicenda umana lambisce i destini e gli eventi del Paese. Marcello ha consegnato il personaggio a Luca Marinelli, e dobbiamo essergliene ben grati, tremiamo al pensiero che Martin Eden sarebbe potuto essere Pierfrancesco Favino, peggio, Elio Germano, peggio ancora, Ricky Tognazzi o Luca Argentero. Serviva un attore di corpo, uno che si portasse dietro la riconoscibilità delle interpretazioni precedenti, sussumendole tutte e rinnovandole per l’occasione. Marinelli è stato, tra gli altri, il villain di Mainetti, il vinto di Caligari, il fricchettone bambascione di Virzì: tutto questo compare in Martin Eden, in un’alzata di spalle, in uno sguardo in tralice, in un’espressione, ma è bene, perché tutto questo è, anche, l’Italiano secondo Pietro Marcello. Il tema è scottante, scabroso, altamente politico. Marcello, con la testa piena di sovversivi, accentua l’importanza della cultura come riscatto, la cala in un’Italia chiaramente riconoscibile nelle sue miserie – Napoli, il porto di Genova – ma difficilmente contestualizzabile quanto a dimensione temporale. Siamo all’alba del boom economico? Siamo nell’immediato dopoguerra? Non è dato compiutamente sapere, quel che è certo è che il denaro sembra l’unica lingua parlata tra differenti classi sociali e all’interno di esse.

La camera segue la dolente parabola fisica e morale di Martin, in alternanza con schegge impazzite di cinema verità: spezzoni di documentari, filmati di repertorio utilizzati in funzione prettamente filmica, scorci di volti e povertà e macerie che danno forma ai tumulti del marinaio, come in un personalissimo, intimissimo, pasoliniano Viaggio in Italia. Il registro narrativo è quello del melodramma, la falsa traccia è quella, a la Matarazzo, della storia d’amore impossibile. Sotto di questa c’è un racconto di titanismo nazionale, perché l’Italia appare come una repubblica economica fondata sull’individualismo, sul cinismo e anche, purtroppo, sull’analfabetismo, perpetrato come sistema di governo. Non è ben chiaro il momento, il quando e il chi abbiano deciso che l’istruzione cessasse di essere ascensore sociale e livellamento, il dato; certo è che all’Italiano accattone si è poi appaiato l’archetipo dell’Italiano arricchito, la furbizia come valore sommo, il pragmatismo senza etica come unica strada per il successo. E l’individualismo, appunto. Come individualista, fino all’estremo, è Martin Eden, alieno e alienato da qualsivoglia senso di appartenenza che non sia il richiamo dell’elemento acquatico, grembo tombale e comfort zone amniotica. Il finale del film, prevedibile anche se non auspicato, è infatti il de profundis del Martin Italiano e dell’Italia, in un non luogo dove i passati, anziché passare, coesistono, e dove il fascismo, che non vuole smettere di finire, incombe a dettare le coordinate della visione e della percezione. Sia lodato il dio del cinema. Sia lodato il dio del cinema.