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Lupo Vichingo

2022
Titolo Originale:
Vikingulven
REGIA:
Stig Svendsen
CAST:
Liv Mjönes (Liv Berg)
Elli Rhiannon Müller Osborne (Thale Berg)
Arthur Hakalahti (William)

Il nostro giudizio

Lupo Vichingo è un film del 2022, diretto da Stig Svendsen.

Il nuovo film di Stig Svendsen (Elevator e Kngs bay), Lupo Vichingo (Vikingulven) è un’interessante, anche se poco riuscita, rivisitazione della mostruosità licantropa. Ambientato in una sperduta cittadina Norvegese, la narrazione ostenta numerose tematiche che meritavano di essere analizzate con più cura. L’incipt fanta-storico (grossolanamente messo in scena) che introduce la vicenda, svela fin da subito, le intenzioni del racconto. Gudbrand il feroce, capo dei Vikingi, nel 1050 depredando una sacra abazia normanna (lo stigma cristiano colpisce ancora!), libera le forze del male, che, come una pandemia irrefrenabile, lo seguiranno fino alle lande più brulle della Norvegia. L’avidità e l’ingorda curiosità umana saranno punite dal divino, sotto forma di mastino infernale.

Stacco ai giorni nostri. Nella tranquilla cittadina ora vive la solita ristretta comunità provinciale (seppur norvegese, le peculiarità non si distinguono dal carosello di stereotipi “alla Twilight”). La giovane Thale (un’ottima Elli Rhiannon Müller Osborne), appena trasferitasi con la madre poliziotta, vivrà (o meglio dovrebbe vivere), attraverso la trasformazione animalesca, i cambiamenti repentini dei suoi umori adolescenziali, delle sue sensazioni ormonali, del corpo che, brutalmente, cambia, divorata dal religioso senso di colpa. Lo sviluppo della narrazione fa quasi tenerezza. La suspence, le sorprese, alcuni jump scares che lo spettatore vive attraverso i lenti mutamenti della giovane dovrebbero lentamente rivelare il climax della vicenda, che tuttavia, è intuibile e scontatamente presentato fin dalle prime battute.

I cliché purtroppo anche si sprecano. Non parlo di quelli giustamente classificabili nella specifica codificazione licantropa, ma di masticati standard uniformati, come il vecchio pazzo cacciatore solitario che rivela, non ascoltato, la soluzione del dilemma. Le titubanze scientifiche del campo forense che sgomento si inchina alla forza dirompente e misteriosa della natura, il solito teatrino tra madre/figlia e padre morto… Per non parlare del lupo in sé. Il film sicuramente non vanta un budget da blockbuster, ma Asbjørn Nedrehagen (scultore e animatore 3d tra gli artefici del più fortunato Troll) e Veronika Grüchot (makeup artist dal futuro hollywoodiano) hanno incantato molto, ma molto meno di Brian Johnson, che, con gli animatroni figli di Rambaldi e Baker, hanno creato l’immaginario per eccellenza del lupo mannaro. Ripeto, le premesse per metaforizzare, attraverso il genere, la trasformazione adolescenziale e le pulsioni, soprattutto femminili (di girl power nel film ci si riempie la bocca) ci sono. Le similitudini del forestiero, del diverso, che tanto hanno (ben) giocato e giovato nel cult di Landis. Tuttavia manca alla vicenda, fin dalle prime rivelazioni narrative, la capacità e il coraggio di visionare e presentare tali cambiamenti sotto forma di autentiche epifanie horror (come invece ha ben intuito e sviluppato Robert Eggers nel suo dramma di terrificante emancipazione femminile The Witch). Pur evidenziando limiti significativi, il film vanta sicuramente un appeal generazionale di genere. Si plaude ancora una volta Netflix che propone e impone la visione del Fanta Europa contemporaneo il quale resterebbe sicuramente sconosciuto se non ai topini da festival. Speriamo si possa osare di più, tuttavia, in termini narrativi, spettacolari e di categoria (horror); io vedo ancora troppo poco sangue e disgusto.