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L’uomo del labirinto

2019
Titolo Originale:
L’uomo del labirinto
REGIA:
Donato Carrisi
CAST:
Toni Servillo (Bruno Genko)
Dustin Hoffman (dottor Green)
Valentina Bellè (Samantha Andretti)

Il nostro giudizio

L’uomo del labirinto è un film del 2019, diretto da Donato Carrisi

Il labirinto come metafora del racconto: entrarvi, perdersi, uscirne. Donato Carrisi ha sicuramente uno stile narrativo maniacale, ai limiti dell’ossessivo compulsivo quando si perde in simboli e numeri. Ne La ragazza nella nebbia ci eravamo certo accorti del suo gusto per l’immagine e per le atmosfere rarefatte, innaturali, ma anche di una non celata intenzione di non voler essere un giallista dei tempi andati. Non siamo davanti a classici thriller di investigation, non vi è una ferrea logica a sostenere il tutto; niente indizi, alibi, moventi, dettagli sfuggiti all’occhio umano. Qui è solo questione di fede. Bisogna crederci, anche ne L’uomo del labirinto; soprattutto non farsi impressionare dalle molteplici teste di quest’idra stilizzata fino al parossismo. Al massimo, come il sottoscritto, non trovarsi pienamente concorde o particolarmente colpito. Specie se inaspettatamente si viene messi davanti alla palese supponenza che, in coda, tutto torni. Che l’idea diventi logica. O Platone, o Aristotele, caro Carrisi. La logica ha le fattezze di un Toni Servillo sfatto e maleodorante: l’investigatore privato Genko ha accettato di scoprire la verità sul rapimento della giovane Samantha Andretti per il solito vil danaro, salvo poi voler dare un senso a tutto sulla spinta di una malattia terminale.

Intanto però Samantha è ricomparsa dopo quindici anni di prigionia ed a raccogliere la sua testimonianza in ospedale viene mandato “l’idea”, un profiler che si presenta come dottor Green (un Dustin Hoffman ordinatissimo) e che la verità la vuole trovare nella mente della ragazza, nei meandri dei suoi ricordi. Due metodi agli antipodi che caratterizzeranno, in un continuo montaggio alternato, lo scorrere di una narrazione molto allungata, forse fin troppo visto il dilungarsi di alcune scene. La mano tuttavia c’è, ed è inutile negare e non riconoscere a Carrisi una discreta capacità nel trasferire in immagini i mondi nati dalla sua penna. Sicuramente va fatto un plauso alla fotografia di Federico Masiero e alle scenografie di Tonino Zera, capaci di trasmettere l’idea di una vicenda fuori dal tempo e senza continuità di spazi. Gli interni sono sicuramente impressionanti (il labirinto, l’ufficio “persone scomparse”, l’appartamento in rosso della prostituta amica di Genko), mentre gli esterni passano da un centro metropolitano sfuggente e futuristico ad una periferia rurale e decadente. Si ha già, da questi elementi, la certezza di un giallo destrutturato, privato di alcuni requisiti chiave per poter traboccare a piacimento nel nostalgico noir o nel thriller contemporaneo di matrice americana, da Seven a Saw.

Infatti il gioco c’è nell’insano rapporto tra rapitore e vittima che viene rievocato dai flashback: il superamento di una prova per poter rimanere aggrappati alla vita. Così come il Genko di Servillo sembra inizialmente barcamenarsi in un ambiente e in una vicenda più grandi di lui, a volte sembrando più un Deckard malridotto a caccia di replicanti, salvo poi trovare la pista giusta. Il male che circonda la figura di quest’uomo con la faccia da coniglio non sembra mai troppo terreno e il fumetto per bambini che ne rappresenta le origini ha sicuramente il suo sorprendente effetto perturbante. Il colpo di scena, quello finale o d’appendice, oltre ad essere effettivamente un marchio carrisiano, è potente e ben eseguito, se non fosse per qualche ingenuità narrativa a priori. In sintesi, la forma de L’uomo del labirinto non lascia sicuramente indifferenti, ma la sostanza è alle volte molto rivedibile.