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Lizzie

2018
Titolo Originale:
Lizzie
REGIA:
Craig William Macneill
CAST:
Chloë Sevigny (Lizzie Borden)
Kristen Stewart (Bridget Sullivan)
Fiona Shaw (Abby Borden)

Il nostro giudizio

Lizzie è un film del 2018, diretto da Craig William Macneill.

Aveva dunque ragione il caro vecchio Pascoli nel sostenere che, in ognuno di noi, indipendentemente dall’età, cova sornione un sempreverde fanciullino. Non si spiegherebbe altrimenti la vorace e compulsiva sete che da tempo immemore ci spinge a riascoltare (e a rivedere) senza sosta le medesime storie. Per noi cresciuti a pane, remake e, più recentemente, dosi massicce di reboot, un’opera come Lizzie non può certo apparire più di tanto indigesta, a maggior ragione se pesca a piene mani nel torbido di uno dei più celebri eventi di cronaca nera della Belle Époque americana, saldamente inchiodato nell’immaginario popolare da oltre un secolo abbondante. Il fatto che a Craig William Macneill il fattore sorpresa interessi ben poco quando si parla di cinema è chiaro come il sole fin dai tempi di The Afterlight, un’idea di esperienza visiva, in seguito ben consolidata dal perturbantissimo The Boy, dove il concetto di “novità” viene felicemente sacrificato in nome di un impianto formale impeccabile e di atmosfere che rasentano il malsano in più di un’occasione. E stavolta, a dire il vero, di carne fresca ne viene cavata fuori ben poca dalle ormai arcinote vicissitudini della glaciale signorina Borden (Chloë Sevigny), eletta black lady d’America 1892 con l’accusa di aver orribilmente trucidato a suon di ascia il padre (Jamey Sheridan) e la matrigna (Fiona Shaw) con la presunta passiva complicità della cameriera Bridget Sullivan (Kristen Stewart).

Un’avvincente e inquietante epopea giudiziaria, capace di sconvolgere un’intera nazione sino alle proprie benpensanti fondamenta e di generare addirittura un filone cine-televisivo ad hoc, inaugurato con l’ormai cultissimo The Leggend of Lizzie Borden (Paul Wendkos, 1975) e ben cementificato dal filologico Lizzie Borden Took An Ax (Nick Gomez, 2014), dove i succinti panni della verginella scudisciante vengono ben calzati da una conturbantissima Christina Ricci, in seguito richiamata in causa anche per il tele spin-off The Lizzie Borden Chronicles. Dunque materia ben masticata e già da tempo digerita quella con cui Macneill si trova ad avere a che fare, non potendo nemmeno giocare più di tanto con le stuzzicanti illazioni di verità tanto care al mistery d’oltre oceano. Ed è qui che l’esperienza maturata con l’universo incubotico di Channel Zero inizia a far germogliare i propri frutti, spingendo lo scaltro cineasta a ridurre al minimo la complessità del racconto per puntare tutto sul comparto estetico. La gelida fotografia di Noah Greenberg, il montaggio compassato di Abbi Jutkowitz e le avvolgenti sonorità stranianti del caro vecchio Jeff Russo costruiscono l’impalcatura di un dramma psicologico parecchio malsano, venato da sporadiche – e gustosissime – esplosioni gore in cui il focus d’attenzione si concentra sul lato esistenziale della vicenda e dei personaggi che la popolano, facendo emergere la palpabile tensione familiare così come il pruriginoso (e puramente speculativo) rapporto saffico che lega le due presunte assassine.

Il ritmo è, per forza di cose, dilatato fino allo spasmo e le relazioni fra i soggetti della tragedia si trasmutano in un puro kammerspiel ansiogeno, comprimendo ogni accadimento all’interno della anguste e soffocanti geometrie della magione incriminata. Tutto è ben orchestrato sin nei più piccoli dettagli e le performance attoriali – con ampie riserve nei confronti della macilenta Stewart – decisamente di alta classe. Tutto bene insomma. Ciò nonostante la sgonfia accoglienza del Sundance è stata già a suo tempo campanello d’allarme di una diffusa mediocrità che attraversa in sottotraccia l’intera operazione, dimostrando come un bell’impiattamento difficilmente possa rinvigorire e dare sostanza a un minestrone riscaldato. Ma non facciamo troppo gli schizzinosi. Se non ci scandalizziamo più di tanto nel vedere ballonzolare davanti ai nostri occhi per la quattrocentesima volta la vermiglia calzamaglia del beneamato Robin Hood, allora un film come Lizzie non può certo farci alcun male.