Featured Image

L’immortale

2019
REGIA:
Marco D'Amore
CAST:
Marco D’Amore (Ciro Di Marzio)
Giuseppe Aiello (Ciro bambino)
Salvatore D’Onofrio (Bruno)

Il nostro giudizio

L’immortale è un film del 2019, diretto da Marco D’Amore

Mentre scrivo questa recensione, è ufficiale che questo attesissimo spin-off di Gomorra – La serie è il miglior incasso dell’anno in Italia, limitatamente al primo giorno nelle sale. Non che ciò rappresenti una sorpresa, tuttavia davvero niente male per uno zombie-movie! Sì, avete letto bene. Il morto vivente, il non-morto o, se preferite, “o’ muorto che pparla” (numero 48 della Smorfia napoletana) è appunto Ciro Di Marzio, l’ex Immortale. Senza alcuna paura di rivelare troppo, possiamo rassicurare i fan della serie: Ciro, personaggio che aveva ormai esaurito qualsiasi discorso o velleità nella macro-storia criminale più seguita d’Italia, è vivo, sopravvissuto miracolosamente al colpo di pistola al cuore infertogli dal suo amico Genny Savastano. È andata dunque così male, la quarta stagione, da dover scrivere un film che giustificasse il reingresso di un personaggio che non aveva più niente da dire? Ovviamente no. Come tutti i crimini, compresi quelli creativi, bisogna tenere conto dell’aggravante della premeditazione. Di sicuro la natura di pretesto dietro questa operazione tende immediatamente a far scendere le quotazioni de L’immortale.

Dopo essere stato salvato da morte certa, il dead man walking Ciro viene mandato da don Aniello a Riga, in Lettonia, a gestire il traffico di stupefacenti in società con la mafia russa. Là ritrova Bruno, uomo che ha avuto un ruolo chiave nella sua formazione criminale durante l’infanzia e che vive lì insieme ad altri compaesani occupandosi di contrabbando di capi d’abbigliamento. Ciro si ritroverà presto in un’altra lotta tra bande, mentre i ricordi dei suoi primi anni di vita ritorneranno alla luce. Il catalogo dunque è questo: da una parte la resurrezione dell’ex boss di Secondigliano, dall’altra il tanto atteso Bildungsroman o origin story, ultimo tassello che mancava allo stratificato viaggio dell’antieroe Di Marzio. Inutile dire che la parte più interessante di questo film è proprio la seconda citata, sebbene vada chiarito che non vi si troverà niente di nuovo rispetto a quanto già narrato in quattro stagioni di serie tv. Entrare nel mondo di Gomorra comporta lo stesso pacchetto di rinunce, perdite e tradimenti che abbiamo già visto sperimentare a tutti gli altri personaggi. Ecco dunque che Ciro, reso orfano dal terremoto in Irpinia e costretto a crescere sulla strada tra furtarelli e piccoli incarichi offerti da boss altrettanto piccoli, ci viene restituito nel momento in cui la dura lezione “non fidarti di nessuno” ancora non era stata imparata. Il piccolo Giuseppe Aiello è perfetto nella sua spontaneità e nella dolcezza delle sue espressioni. Il rapporto che lega il giovanissimo Ciro a Bruno è ben sviluppato, sebbene venga troppo risucchiato dalle disavventure del Ciro risorto.

Le lacune più gravi de L’immortale non finiscono di certo qui. La regia di Marco D’Amore è in perfetta linea con quelle, televisive, di gente più esperta come Sollima o Comencini ed è sorretta da un direttore della fotografia altrettanto competente come Guido Michelotti. Si constata invece, con enorme disappunto, la presenza continua e disturbante di brani musicali di sottofondo, senza che venga mai concessa una pausa consistente in cui a parlare siano solo i personaggi e i rumori di fondo. Per essere chiari, c’era meno musica in Ammore e malavita dei Manetti. Finché si tratta dei quaranta minuti di un episodio televisivo si può ancora reggere un accompagnamento musicale così corposo; in un film di quasi due ore, la cosa diventa fastidiosa. La sceneggiatura è prevedibile e fa presto capire il grande disegno che sta dietro a questo spin-off, rivelato in un finale dove i conti già fatti torneranno in sospeso. Vale dunque la pena parafrasare Romero: “Quando ci saranno troppi personaggi all’inferno, i morti cammineranno su Gomorra”. Cala dunque il sipario, stavolta davvero, su Ciro “o’ Immortale”, non perché sopravvissuto a troppi dolori e lutti per una sola vita, ma perché condannato a rimanere vivo inutilmente.