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Limbo

2023
REGIA:
Ivan Sen
CAST:
Simon Baker (Travis Hurley)
Rob Collins (Charlie)
Natasha Wanganeen (Emma)

Il nostro giudizio

Limbo è un film del 2023, diretto da Ivan Sen.

Siamo nell’outback australiano. Un paesaggio lunare e desolato che sembra creato apposta per l’horror, vedi la serie Wolf Creek o l’ultimo, potente The Stranger di Tom Wright. Se “l’Australia è un genere cinematografico”, come ha scritto Massimiliano Martiradonna, è proprio perché quella terra diventa facilmente correlativo oggettivo dello stato d’animo dei personaggi che la abitano: l’immensa solitudine si fa anche interiore ed emana l’umanità che vive intorno. Qui il genere di riferimento non è l’horror, bensì il noir: “a desert noir” lo definisce il regista Ivan Sen, a sua volta aborigeno australiano, e fa bene a parlare di deserto, inteso come limbo, zona purgatoriale, terra di nessuno. Proprio all’Hotel Limbo arriva il detective Travis Hurley (Simon Baker), nient’altro che una stanza scavata in una roccia. A lui hanno chiesto di riaprire un cold case, la scomparsa della giovane aborigena Charlotte avvenuta vent’anni prima. La ragazza un giorno è sparita nel nulla, l’hanno vista sulla strada per l’ultima volta e poi si sono perse le tracce. L’investigatore affronta la questione attraverso iniezioni di eroina, vagando per il passaggio in un moto centripeto, in un ritorno continuo al punto di partenza, perché nessuno vuole parlare con lui e tutti lo respingono, d’altronde resto non si fidano dei bianchi.

Limbo di Ivan Sen, in concorso alla Berlinale 2023, è girato interamente in bianco e nero e si fregia di una splendida fotografia, che serve ad evidenziare opportunamente le luci e le ombre del paesaggio. Una terra alla luce del sole, con rare costruzioni ad ostruire l’esterno, che vediamo tutta davanti agli occhi, eppure che nasconde qualcosa: dentro le grotte e nei cunicoli si trova l’ipotesi per sciogliere il mistero. Hurley parte in difetto, perché è passato troppo tempo dalla scomparsa, vent’anni, il tempo necessario per occultare e impolverare l’immagine della ragazza, che infatti non si vede mai, né in flashback né in fotografia. C’è solo il desolato presente. Il racconto adotta un ritmo grave e meditabondo, fatto di gesti ripetuti, quelli del detective che prova e riprova, fino a calarsi in un contesto che in modo sotterraneo ribolle di conflitti etnici: i bianchi e i neri, gli stranieri e i nativi, i ricchi e i poveri nell’ennesima versione dello sfruttamento dei più deboli. Due aborigeni, ex marito e moglie in conflitto con alcuni figli che rischiano di perdersi, sono la traccia principale per il detective che prova ad aprire una breccia. Versioni che non tornano e indizi impercettibili si materializzano sotto i suoi e i nostri occhi, bisogna saperli cogliere.

Il film poggia su alcuni archetipi del genere, il noir appunto, e trova il suo limite nella loro impaginazione quando si fa troppo evidente senza nulla da aggiungere: la scomparsa, la comunità ostile, il detective tossico e la sua lenta indagine. Tornare sulle stesse forme e luoghi per circa due ore rischia a tratti di portare una deriva estetizzante, un “film d’autore” a tutti i costi che può depotenziare la storia narrata. Dall’altra parte, però, con la sua ripetuta insistenza la storia riesce a creare compiutamente l’atmosfera voluta: una mesta desolazione, un non-luogo in cui arduo è portare giustizia. Vedendo Limbo viene in mente Texas Killing Fields di Amy Canaan Mann per la sua natura limacciosa, per la stasi che rende il caso difficile, e tutte le opere ambientate in una comunità chiusa, per esempio Deadly Blessing di Wes Craven girato nella congrega degli ittiti iper-religiosi. Il protagonista naturalmente arriverà a metà, salderà anche un conto con se stesso per poi allontanarsi, lasciare l’outback che nell’ultimo fotogramma viene inquadrato dall’alto come una superficie lunare. Vasta, affascinante, e piena di crateri.