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Licorice Pizza

2021
REGIA:
Paul Thomas Anderson
CAST:
Alana Haim (Alana Kane)
Cooper Hoffman (Gary Valentine)
Sean Penn (Jack Holden)

Il nostro giudizio

Licorice Pizza è un film del 2021, diretto da Paul Thomas Anderson.

Dopo la Londra anni 50 dell’acclamato Il filo nascosto, Paul Thomas Anderson torna alla natìa San Fernando Valley e a quegli anni 70 già rievocati in Boogie Nights e Vizio di forma, realizzando la sua opera sin qui più lieve e luminosa. Una love story esuberante e sghemba affidata alla chimica di una sorprendente coppia di esordienti: Cooper Hoffman, figlio del compianto Philip Seymour Hoffman, e Alana Haim, musicista e amica di famiglia dello stesso Anderson. L’avvio è nel segno del più tipico boy meets girl, dove lui, Gary Valentine, intraprendente liceale e attore in erba, durante la sessione di foto per l’annuario scolastico, incontra lei, Alana Kane, mordace venticinquenne assistente fotografa. E se per lui è subito colpo di fulmine, mentre lei si mostra reticente per via del gap d’età, l’attrazione è nondimeno reciproca e irresistibile; innesco di una lunga rincorsa a due fatta d’inciampi e strappi continui, fino all’inevitabile (ri)congiungimento finale. Sullo sfondo, la Los Angeles del 1973, tra elezioni comunali e crisi petrolifera, sogno americano e crepuscolo di Hollywood.

Ancora una magnifica ossessione, ancora una dipendenza viscerale, dopo quella – fatalmente in bilico tra eros e thanatos – di Alma e Reynolds Woodcock, a proseguire il discorso lungo un’intera filmografia sulla natura ambivalente e insondabile dei legami umani. Ma alle tensioni psicoanalitiche e alla misurata algidità di Phantom Thread subentrano in Licorice Pizza un vitalismo dirompente e una caustica leggerezza da commedia classica (il modello dichiarato, non a caso, è Billy Wilder). Il tutto condotto con un controllo sempre più capillare del proprio lavoro (PTA non solo dirige, sceneggia e produce, ma è anche accreditato alla fotografia con Michael Bauman), attraverso una regia che sa rendersi invisibile per seguire le traiettorie di Alana e Gary (come nello splendido doppio piano sequenza iniziale che accompagna il loro primo incontro), assecondandone l’incessante movimento. È questo un film dove si corre, letteralmente, sempre: a piedi, in auto, in moto, in camion. Con un flusso costante di canzoni squisitamente seventies a scandire il ritmo e restituire la musicalità di una narrazione estremamente dinamica per quanto frammentata, tra situazioni ricorsive (gli improbabili business avviati da Gary, i cambi di lavoro di Alana), sterzate improvvise (il concitato arresto dello stesso Gary) e deviazioni inaspettate (la campagna elettorale del candidato sindaco Joel Wachs).

Una pellicola dall’andamento ondivago, dunque, che intreccia la ronde sentimentale dei suoi bizzosi protagonisti ad altre vite, ad altre storie; con particolare attenzione al sottobosco hollywoodiano dell’epoca, incarnato da un’eccentrica schiera di personaggi a metà tra realtà e finzione, come il Jack Holden di Sean Penn, ricalcato sulla vecchia gloria William Holden, o il Jon Peters di Bradley Cooper, esilarante versione distorta del vero Peters (produttore ed ex parrucchiere compagno della Streisand). Una variopinta galleria di divi al tramonto e star televisive, attori bambini e mestieranti vari, a cui Anderson guarda con la stessa divertita malinconia che ammanta quel C’era una volta a… Hollywood di cui Licorice Pizza è opera gemella: non solo, o non tanto, per l’analogo sguardo affettuosamente rivolto a un (mondo) passato che si vuole far rivivere, quanto per l’atto di fede assoluta nel cinema che tale sguardo sottende. E se Tarantino si spinge fino a riscrivere la Storia, avverando ucronie impossibili, Anderson la trasfigura attraverso il filtro emotivo del ricordo, la lente soggettiva del proprio immaginario, ritrovando l’atmosfera sognante e sospesa nel tempo di altri titoli “guida” come American Graffiti e Dazed and Confused. In un affresco personalissimo eppure universale, che conferma la piena maturità e libertà espressiva di un autore in stato di grazia che assomiglia ogni film di più al migliore cineasta americano in circolazione.