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L’esorcista – Il credente

2023
REGIA:
David Gordon Green.
CAST:
Leslie Odom Jr. (Victor Fielding)
Lidya Jewett (Angela Fielding)
Ann Dowd (Ann)

Il nostro giudizio

L’esorcista – Il credente è un film del 2023, diretto da David Gordon Green.

David Gordon Green, inutile girarci intorno, è quello che ha riportato in vita – se così si può dire – il Michael Myers di Carpenter nella trilogia modernized di Halloween che tutti conosciamo. Amato e odiato dai fan del killer con la maschera bianca, ha fatto subito parlare di sé (e spesso, spessissimo, con diversi fuck*) sul suo coinvolgimento in questo nuovo sequel/reboot de L’esorcista. Cinquant’anni dopo il film originale di William Friedkin e quasi vent’anni dopo il pasticciaccio produttivo de L’esorcista – La genesi e Dominion (2004) – lo stesso film, girato due volte da due registi differenti, ma ugualmente soporiferi – Green e la Blumhouse, complici la Morgan Creek e Universal, riportano al cinema la possessione promettendo spaventi e atmosfere basate unicamente sul capolavoro di Friedkin e William Peter Blatty. Sulla carta era bastato già questo a spaventare il fandom e a creare scompiglio. L’esorcista, ricordiamolo, non ha mai avuto vita facile con i seguiti: impossibile dimenticare la cavallette di Boorman ne L’esorcista II – L’eretico (che nonostante il tip-tap di Regan, qualcosa di buono ce l’ha) e lo spin off L’esorcista III dello stesso Blatty, a mio parere il capitolo migliore del “franchise” per atmosfera e inventiva. Green cancella i successivi e si concentra sul film del ’73, citandolo già dalla prima inquadratura, con due cani che si azzuffano sotto un cielo giallastro. Il suo prologo però non si svolge in Iraq, ma ad Haiti, in un certo senso dimenticandosi di Pazuzu e di Merrin, e con l’intento chiarissimo di raccontare una sua storia.

La storia vuole che dopo la tragica scomparsa di sua moglie incinta in un terremoto ad Haiti, Victor Fielding (Leslie Odom Jr.) cresce da solo negli Stati uniti la figlia Angela (Lidya Jewett), oggi tredicenne. Angela e la sua amica Katherine (Olivia O’Neill) spariscono nel bosco, per poi fare ritorno tre giorni dopo senza ricordare cosa sia successo. Le due, per mettersi in contatto con lo spirito della mamma di Angela, hanno evocato qualcosa, una forza demoniaca che si è splittata in due, possedendo entrambe. Toccherà a Victor confrontarsi con il male, con l’aiuto di Chris MacNeil, la mamma di Regan, nel frattempo diventata esperta di esorcismi e scrittrice, qui a fare da collante con i fatti del primo indimenticabile cult di Billy Friedkin. Il film di Green fallisce là dove tenta di serializzare qualcosa che di per sé non è serializzabile. Regan – oppure le nuove possedute Angela o Katherine – non sono personaggi adatti per sfornare sequel sulla possessione. Ci hanno provato per una serie, quel The Exorcist del 2016 – fallendo – e ci provano di nuovo con questo film. Ma ciò che più infastidisce è che Green non è Blatty, e là dove L’esorcista di Friedkin stemperava la fede con la psichiatria, il male con il bene, la ragione con l’incredulità, qui mancano le basi dove fondare qualsivoglia teoria dell’ineluttabilità del male e delle sue conseguenze catastrofiche sulle vite delle persone.

Perché il diavolo o chi per lui aveva posseduto Regan? Perché Angela o Katherine? Poco importa se avevamo capito nel 1973 e se abbiamo capito in questo nuovo capitolo, cinquant’anni dopo migliaia di film sulle possessioni. Il film di Friedkin trionfava per la sua abilità nel raccontare ciò che non poteva essere raccontato, attraverso espedienti visivi – e soprattutto sonori – che qui mancano totalmente, ridotti a fotocopie sbiadite del capostipite. E non basta il fan service, l’apparizione di Ellen Burstyn, non basta la diversity spiaccicata sullo schermo come un dogma, non basta il finale, o quella manciata di secondi dove si torna alle origini, nostalgicamente, dove si torna a Friedkin e Blatty, a Georgetown, al demone e alle cicatrici nella carne e nello spirito. Tutto questo non basta per replicare qualcosa che se ci ha sconvolto profondamente, lo ha fatto per una coincidenza di intuizioni e di necessità, per un approccio filmico e sensoriale che oggi non ha più quello stesso pubblico. Perché se questo film è un fallimento è proprio perché è pensato per un pubblico, quello della Blumhouse, dell’horror da sgranocchiare con i popcorn in mano, del jumpscare, e persino di James Wan e delle sue saghe infinite. Il male, quello vero, non è qualcosa che puoi serializzare, in tv come al cinema.