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Leap of Faith

2019
Titolo Originale:
Leap of Faith
REGIA:
Alexandre O. Philippe
CAST:
William Friedkin

Il nostro giudizio

Leap of Faith è un documentario del 2019, diretto da Alexandre O. Philippe.

Un monologo che tutto svela e nulla rivela. Una testimonianza resa in prima persona che si fa confessione. Una racconto autobiografico che mette in scena l’inedito. Protagonista assoluto è il regista, sceneggiatore e produttore statunitense William Friedkin, il rivoluzionario dell’horror soprannominato il regista del Male. Una narrazione cinematografica che vede Friedkin raccontare, senza soluzione di continuità, il suo L’esorcista (1973). Ma nella versione più scabrosa, perché intima, che mette a nudo l’anima del regista americano famoso anche per lungometraggi come Il Braccio Violento della Legge (Premio Oscar al miglior regista nel 1972) e Vivere e Morire a Los Angeles. E che restituisce allo spettatore una chiave di lettura assolutamente sorprendente del film tratto dall’omonimo romanzo di William Peter Blatty, autore della sceneggiatura per la pellicola di Friedkin. Questa, in sintesi, la cornice di Leap of Faith presentato a Venezia alla 76esima Mostra del Cinema nella categoria Classici. Il modello d’intervista vorrebbe essere alla Hitchcock-Truffaut. Il docufilm si snocciola come un rosario: la fede e il destino coesistono per Friedkin nell’accadere delle cose, in tutti i suoi film come nella sua vita. Una lettura sacra ma laica degli eventi dove l’assoluto di sentimenti quali l’amore per la madre, (che unisce, ne L’esorcista, il regista a Blatty e al personaggio di padre Karras) convive con azioni blasfeme, del calibro della masturbazione forsennata di Regan nella scena cult del crocefisso che penetra a sangue la vagina dell’adolescente posseduta. Un’orgia mefistofelica che, al pari di una tragedia greca di Sofocle, scompone e annulla le regole della ragione. Friedkin confessa che la sua iniziazione al cinema è legata alla visione di Odette, il film drammatico di Jerrard Tichell girato in bianco e nero, a presagire la dualità della sua poetica rappresentata dall’inscindibilità del bene dal male, dell’amore dalla morte. A guidare Friedkin sono istinto e immaginazione, come lui stesso confessa: “come se sapessi già tutto”.

In un film profondamente simbolico qual è L’esorcista, le scene non hanno, però, necessariamente un senso: di quella, ad esempio, dell’orologio inquadrato che improvvisamente si ferma, il regista non conosce il significato. Al contrario è sicuro che i luoghi conservino l’energia delle persone che li hanno popolati e delle cose accadute. Ancora una volta la dualità che ritorna, l’ignoto e il noto che sembrano rincorrersi nella sua mente e nel film. Un Friedkin senza censura che svela l’uso di tecniche oggi improponibili come quando, per rendere credibile l’espressione di dolore da parte di un attore, gli sferra un pugno in pieno viso. Generosamente disposto a condividere il suo modo di procedere nella regia, i suoi metodi e la sua filosofia, senza il timore di rimpiangere e perfino di mettere in dubbio alcune delle difficili scelte fatte durante le riprese. A influenzarlo, a detta sua, la pittura di James Ensor alle cui maschere dipinte deve l’ispirazione per rappresentare il demonio sui volti degli attori. A Caravaggio deve, invece, la sua ricerca ossessiva della luce nell’oscurità, consapevole di vivere nel buio delle cose di cui, come in un quadro del pittore cinquecentesco milanese, illumina solo un frammento. A formare e a segnare in maniera indelebile Friedkin, inoltre, la tecnica fotografica di Henry Cartier Bresson, la poetica di Rembrandt e la celebre veduta di Delft di Vermeer. Note di grazia che per il regista tendono a riequilibrare l’ambiguità dell’esistenza, a tratti grottesca nelle vesti del diavolo, a tratti sublime nell’arte. L’uomo Friedkin in questo documentario vince sul regista: quello che vediamo nei suoi film si nutre, secondo il suo modo di pensare e di dire, di tutte le storie passate, presenti e future depositate nell’archivio dell’inconscio collettivo, un gigantesco I Cloud nel quale è conservato il sapere universale. Chi ne possiede la connessione può accedervi a piene mani.

E nutrirsi del linguaggio dei simboli in cui è scritta, secondo il regista, la Vita e il cinema che vuole rappresentare. Simboli ricorrenti che diventano, nell’analisi di Friedkin, potenti talismani. Come la medaglietta di San Giuseppe, miracolosamente ritrovata in Iraq nella scena iniziale de L’esorcista, durante uno scavo archeologico, accanto alla statuetta del potente demone Pazuzu. Migliaia di anni di differenza tra una e l’altra icona a presagire il futuro e la vera natura circolare del tempo. Talismani, come l’obelisco di 2001: Odissea dello spazio di Stanley Kubrick. Come lo slittino in Quarto potere di Orson Welles. Leap of Faith di Alexandre O. Philippe è ricco e complesso e si conclude con Friedkin che condivide con lo spettatore l’immagine di un giardino zen, ammirato durante un suo viaggio a Kyoto. Il protagonista racconta di essersi trovato a guardarlo e a chiedersi come mai potesse tanto attrarlo con la sua forma elementare fatta di sabbia pettinata e di rocce isolate una dall’altra. “Poi ho capito la sua fama. Il suo potere. Rappresenta la vera natura umana. Le rocce sono simboli delle persone irrimediabilmente separate in un deserto di solitudine” rivela il regista “e allora ho pianto”. Dopo Liberami, il documentario di Federica Di Giacomo sull’antica pratica dell’esorcismo premiato come Miglior Film nella sezione Orizzonti alla 73esima Mostra cinematografica di Venezia e il docufilm su padre Gabriele Amorth, The Devil and Father Amorth di William Friedkin (2017), che non rende giustizia alla grandezza del suo autore, ancora una volta al cinema il diavolo è con noi e in noi. Amen.