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Le guerre horrende

2017
Titolo Originale:
Le guerre horrende
REGIA:
Giulia Brazzale, Luca Immesi
CAST:
Livio Pacella (il Capitano)
Désirée Giorgetti (lo Scudiero)
Dario Leone (il Soldato)

Il nostro giudizio

Dopo Ritual – Una storia psicomagica (2013), i registi veneti Giulia Brazzale e Luca Immesi tornano alla ribalta con un nuovo eccellente film, Le guerre horrende (2017). I due confermano qui la loro peculiare vena artistica che li rende fra i più interessanti autori nel cinema d’arte italiano contemporaneo. Dalla (psico)magica esperienza di Ritual, a metà fra thriller polanskiano, surrealismo di Jodorowsky e folklore popolare, passiamo a un film dove permangono il secondo e il terzo elemento, mentre la componente misteriosa (pure in parte presente) è sostituita da una dimensione fiabesca che è un j’accuse contro tutte le guerre. Scritto dai due registi insieme a Livio Pacella e tratto dall’omonimo testo teatrale di Pino Costalunga, il film si svolge in una radura circondata dal bosco, in un luogo bucolico e imprecisato, dove vivono il Capitano (Pacella) – reduce dalle due Guerre Mondiali, prima soldato poi partigiano – e il suo Scudiero (Désirée Giorgetti) insieme al carro da circo dell’uomo. I due passano le giornate recitando storie fantastiche e ricordi drammatici, ma la routine è interrotta dall’arrivo del Soldato (Dario Leone), paracadutato dal cielo: accolto con ostilità dal Capitano e con amicizia dallo Scudiero, inizia a condividere man mano la loro esistenza, fino a quando decide di andarsene. Ma scoprirà che da quel bosco è impossibile fuggire. Le guerre horrende (titolo derivante da una frase di Machiavelli) è un film unico e spiazzante, girato con maestria tecnica e una narrazione che avvolge lo spettatore come in un grande sogno/incubo denso di simboli.

È incredibile l’equilibrio che Brazzale e Immesi riescono a trovare tra un surrealismo sognante, grottesco e favolistico, un po’ felliniano un po’ avatiano, e la cruda rappresentazione della guerra – intesa sia in senso immanente (una forte denuncia antifascista, con precisi riferimenti alla realtà) sia in senso ontologico come male perenne insito nella condizione umana. Balza subito all’occhio una sperimentale e riuscita fusione tra cinema e teatro: tutti e tre i bravissimi attori partono da una recitazione teatrale, declamata e caricata (non a caso, vantano una solida esperienza nel teatro), che poi man mano diventa sempre più realista e cinematografica. La regia ci conduce per mano in questo mondo bucolico e insieme tragico, fra recite di spettacoli immaginari e recite di tragedie belliche, alternati a dialoghi talvolta surreali e talvolta terribilmente duri sulla guerra (questo dualismo è costante).

Periodicamente vediamo dei flashback di varia natura, fra ricordi drammatici e twist narrativi, con personaggi quali il Generale (Cosimo Cinieri, celebre per i film di Lucio Fulci), l’ufficiale nazista (Milton Welsh) e apparizioni fantasmagoriche di misteriose figure, nel bosco di notte, per i quali si citava in precedenza il gusto onirico/grottesco di Fellini e Avati, ma anche certi film di Pasolini o del primo Benigni.  Fondamentale, come in Ritual, l’uso del dialetto veneto (a testimonianza di un forte legame dei due registi con la loro terra natale), in particolare il pavano: frasi e poesie sono talvolta recitate in dialetto (accompagnate dai sottotitoli). Tecnicamente, Le guerre horrende è ineccepibile: come già in Ritual, Brazzale e Immesi dimostrano un’ottima perizia tecnica per quanto riguarda fotografia, inquadrature e montaggio (pensiamo anche soltanto alla maestosa inquadratura iniziale dall’alto). Peculiare anche l’utilizzo delle musiche, talvolta vivaci e squillanti con archi e fiati come in una recita medievale, talvolta più nostalgiche e tristi come la canzone cantata da Patrizia Laquidara. Da notare anche la ricchezza di costumi e oggettistica, contrappuntati da scenografie minimaliste (una radura, un bosco, il carrozzone, un albero con una scala), tutto incredibilmente efficace per la costruzione dell’atmosfera.