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L’angelo dei muri

2021
REGIA:
Lorenzo Bianchini
CAST:
Pierre Richard (Pietro)
Iva Krajnc Bagola (Zala)
Gioia Heinz (Sanya)

Il nostro giudizio

L’angelo dei muri è un film del 2021, diretto da Lorenzo Bianchini.

Il regista friulano Lorenzo Bianchini, vecchia conoscenza nocturniana, è un autore che possiede una precisa idea di cinema: sa dove mettere la macchina da presa, sa come si gira e come si dirigono gli attori, sa come si racconta una storia, e sa mettere paura allo spettatore. Perché il genere frequentato da Bianchini concerne sempre il fantastico, l’orrorifico, il mondo “altro”, evitando però i jump-scares all’americana per concentrarsi sul non-visto e sull’atmosfera angosciante che riesce a trasmettere con il linguaggio del cinema. È successo con il film d’esordio Radice quadrata di tre, poi con Custodes Bestiae, quindi con Occhi, infine con Oltre il guado. Ora, con L’angelo dei muri (2021), Bianchini vira verso qualcosa di parzialmente diverso, dirigendo un thriller psicologico, un dramma, una favola nera dove realtà e immaginazione si confondono: dunque passa oltre l’horror tout-court (a testimonianza di una sensibilità e una creatività sempre fertili) per arrivare a una dimensione inquietante che travalica ancora il mondo immanente, ma in un senso diverso, quello dell’inconscio e dei traumi psichici. Presentato nella sezione Le stanze di Rol del Torino Film Festival appena conclusosi, L’angelo dei muri segna anche il passaggio di Bianchini dal sistema produttivo indipendente a uno più ricco e mainstream, grazie alla co-produzione fra la Tucker Film, Rai Cinema e MyMovies: motivo per cui, l’autore può permettersi come protagonista la star internazionale del cinema francese Pierre Richard (solitamente interprete di commedie, qui usato a contrasto) e come direttore della fotografia il rinomato Peter Zeitlinger, collaboratore abituale di Werner Herzog nei suoi film più recenti. Bianchini è un autore a tutto tondo, perciò oltre a dirigere e a montare scrive anche soggetto e sceneggiatura (insieme a Michela Bianchini e Fabrizio Bozzetti), ambientando la storia a Trieste – perché il suo è sempre un cinema epicorico, legato cioè ai suoi luoghi d’origine. Protagonista è Pietro (Pierre Richard), un anziano che abita in un vecchio appartamento, all’interno di un palazzo fatiscente, scandendo le proprie giornate con una triste routine.

Quando l’ufficiale giudiziario gli notifica lo sfratto, lui pur di non andarsene attua una strategia per continuare a vivere segretamente in quell’angusta dimora: in fondo al lungo corridoio che attraversa l’appartamento, si ritaglia una nicchia e costruisce un muro, con una grata dove entrare e uscire e alcuni fori per spiare il mondo esterno, che lui vede come un nemico. Dentro questo suo piccolo nascondiglio verticale, Pietro continua a vivere, attrezzandosi con un letto e una piccola cucina. Presto arrivano ad abitare nella casa la giovane Zala (Iva Krajnc Bagola) con sua figlia Sanya (Gioia Heinz), una bambina che sta diventando progressivamente cieca, e il vecchio inizia a spiarle attraverso i pertugi, per uscire allo scoperto quando la donna non c’è. La piccola ne percepisce la presenza, tanto da dire alla madre che con loro vive un “angelo dei muri”. Ma chi sono davvero le due nuove inquiline? L’angelo dei muri sa essere tante cose allo stesso tempo: un gioiello di tecnica cinematografica ricco di intuizioni visive efficaci, un thriller ricco di suspense, un dramma commovente e doloroso sui rimorsi e sui fantasmi della mente. E sono sufficienti i primi tre minuti per avere un’ulteriore conferma di come Bianchini conosca scientificamente il linguaggio cinematografico: un piano-sequenza (cifra stilistica ricorrente nel film) che parte da una crepa sul muro e si muove in modo sinuoso e naturale lungo tutta la casa, come se la macchina da presa ci conducesse a esplorare quell’ambiente misterioso, attraverso il corridoio e le stanze che riecheggiano chissà quali segreti. L’angelo dei muri è una lezione di stile, ma mai manieristica, mai calligrafica, mai fine a sé stessa, bensì sempre finalizzata a raccontare qualcosa: il film è composto da lunghi e fluenti movimenti di macchina, e dalle soggettive del protagonista – che osserva da un buco nel muro, dalla grata, da dietro una tenda – per cui la regia ci porta a immedesimarsi col personaggio, a vedere quel microcosmo dalla sua prospettiva, che diventa quella dominante, quasi esclusiva (così come in Oltre il guado la narrazione era condotta dal punto di vista dello studioso, con le inquadrature in soggettiva tramite il visore notturno). Vedremo sottigliezze non comuni, come soggettive che si trasformano in oggettive e viceversa, oppure dissolvenze sulla figura di Pierre Richard che sfuma da una scena all’altra, e claustrofobiche inquadrature sugli interni che popolavano similarmente i suoi film precedenti (il corridoio deriva da Radice quadrata di tre).

Imponente è poi il lavoro di scenografia – realizzata dallo stesso Bianchini – e di fotografia, con la raffinatissima direzione di Zeitlinger che disegna luci e ombre sui volti e sulle pareti, facendo sembrare spaventoso ogni anfratto di quell’angusta magione, dove tutto è polvere e decadenza, fino a preziosismi come le ombre di madre e figlia che si stagliano dietro il manto rosso (viene in mente Suspiria), oppure i vetri bagnati riflessi sul muro, o l’ombra della piccola giostra sulla parete. Come sempre, Bianchini si prende i suoi tempi, diluendo e dilatando la narrazione in circa 100 minuti, ma con la perizia di chi sa raccontare – anche lentamente – senza però annoiare, anzi catturando l’attenzione dello spettatore. Prima ci mostra il vecchio – un sempre grande Pierre Richard, celebre attore francese che lungo tutto il film non parla mai, e recita a meraviglia solo con lo sguardo sofferente – nella sua vita quotidiana, poi introduce le due figure femminili (fantasmatiche?) che danno il via alla parte più misteriosa e inquietante della vicenda, ma anche dolorosa e nostalgica (in particolare nel tenero rapporto fra il vecchio e la bambina). La casa dagli interni gotici, ricca di vecchi oggetti impolverati e chincaglierie, dove qualcuno vive dentro le pareti, deriva dalle fantasticherie infantili del regista, ma forse anche da una certa tradizione del cinema horror come Il nascondiglio di Pupi Avati – un regista non lontano da Bianchini, che lo aveva ispirato anche in Occhi, e con il quale condivide la visione della casa non come un locus amoenus ma come fonte di paura. Un’angoscia che non è più, come nei suoi precedenti film, qualcosa di soprannaturale, ma derivante da allucinazioni e spettri della mente di cui poco alla volta scopriremo la vera natura. Anche la colonna sonora, fatta di archi che stridono e melodie malinconiche, riflette le due anime del film: quella più da thriller, con una sorta di mistero da risolvere, e quella più umana, fatta di dolore e ricordi strazianti. E ne L’angelo dei muri sembra riecheggiare la lezione di Alejandro Amenabar in The Others: chi sono i veri fantasmi?