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La maledizione della Queen Mary

2023
Titolo Originale:
Haunting of the Queen Mary
REGIA:
Gary Shore
CAST:
Alice Eve (Anne Caulder)
Joel Fry (Patrick Caulder)
Lenny Rush (Lukas Caulder)

Il nostro giudizio

La maledizione della Queen Mary è un film del 2023, diretto da Gary Shore.

Fra automobili infernali, ultimi sanguinolenti treni della notte, aeroplani del terrore e persino qualche improbabile camper assatanato, da che cinema è cinema non vi è un solo mezzo di trasporto che il Male non abbia cavalcato durante le sue insidiose scorribande in lungo e in largo fra grandi e piccoli schermi. Ma se è vero che, come sostiene il caro vecchio zio Lynch, per agguantare i pesci più polposi è bene abbandonare la riva e prendere il largo verso il proverbiale Blu Profondo, non stupisce affatto che quel buontempone di Gary Shore, seppellito ormai da tempo il suo più o meno celeberrimo Dracula Untold sotto le insidiose sabbie del tempo, abbia letteralmente scelto di levare la sua seconda filmica ancora a bordo dell’ennesimo vascello ben stipato di spettri e maledizioni assortite, scomodando per l’occasione nientemeno che il più leggendario e, ça va sans dire, il più infestato natante dell’umana storiaccia. E d’altronde, leggendo un titolo come La maledizione della Queen Mary è più che lecito e sacrosanto alzare giusto un tantino gli occhi al cielo e domandarsi, con tutta la miglior predisposizione d’animo possibile, cosa possa ancora spingere qualcuno, nel pieno della seconda decade del Ventunesimo Secolo, a investire tempo, pellicola e parecchio denaro nel voler filmare e dare in pasto agli ormai stanchi cinefili appetiti un’orrorifica crociera che, seppur ben lontana dalle Bermude e dal loro malfamato triangolo, nelle sue obiettivamente eccessive e inutilmente arzigogolate due orette di durata rischia inevitabilmente in più occasioni di finire in alto mare senza la ben che minima scialuppa di salvataggio. Ma poiché, come si sul dire, è sempre bene dare a Cesare quel che è di Cesare, va detto che non è certo il timone della consueta Ghost o Death Ship a buon mercato quello che il caro Shore ha scelto di governare, quanto piuttosto il mitico fiore al marittimo occhiello di Sua Maestà Britannica, varata a metà degli anni ’30 come imponente e lussuoso transatlantico – spiritualmente erede dello sfortunato americanissimo Titanic – e in seguito da tutti conosciuta con il minaccioso nomignolo di “Grey Ghost” durante il suo fiero servizio di trasporto truppe in piena Seconda Guerra Mondiale.

Una meta ambitissima dalla crème de la crème del jet set e dello star system mondiale per oltre un trentennio sino alla sua dismissione a fine anni ’60, divenuta in seguito un visitatissimo museo a cielo aperto all’ombra della californiana costa di Long Beach e, per l’appunto, vero e proprio set nel quale mettere finalmente in scena una già annunciata (e potenzialmente redditizia) trilogia dedicata ad alcune delle più macabre e presumibilmente oscure leggende metropolitane – anzi, marinare – nate e cresciute fra i pontili e dietro gli oblò di questo (stra)maledettissimo bastimento. Si parte dunque di gran carriera con una vicenda che, attraverso un alquanto maldestro montaggio alternato dall’acidulo retrogusto nolaniano, tenta di barcamenarsi tutt’altro che limpidamente tra due fondamentali piani temporali, interconnessi dal sangue e dal perpetuarsi di un terribile segreto sepolto, più che mai letteralmente, fra i rivetti e i compartimenti stagni che costituiscono l’imponente organismo della nostra tutt’altro che amorevole Love Boat. Ed è così che il terrificante fattaccio della famiglia Ratch, intrufolatasi a tradimento a bordo del lussuoso party di Halloween del 1938 prima che lo sfregiato patriarca David (Wil Coban), forse posseduto da qualche malevola entità, tramutatosi in un novello Jack Torrance ben armato di ascia d’ordinanza trasformasse la Regina dei Mari in una sorta di Overlook Hotel galleggiante, s’interconnette, a distanza di quasi un secolo, con l’altrettanto nefasto destino dei coniugi Caulder (Alice Eve e Joel Fry), inizialmente giunti in loco per progettare un innovativo tour virtuale della storica imbarcazione ma costretti ad imbarcarsi (sic!), loro malgrado, in un’orrorifica gitarella turistica nelle temibili viscere dell’ormai sedentario piroscafo per salvare l’amato figlioletto Lukas (Lenny Rush) dalla morsa di un Male pronto a tornare a navigare, sempre e per sempre, sulla proverbiale cresta dell’onda.

Nel bene e nel male, con tutti i suoi miseri pro e parecchi contro di rimando, La maledizione della Queen Mary appare come un film decisamente atipico, per non dire addirittura unico nel suo inflazionatissimo genere. Un’opera sconnessa, debordante e decisamente inclassificabile, ben consapevole della sua scontatissima sostanza e ben decisa a mascherare quest’ultima con una forma alquanto singolare data la tipologia del prodotto in questione, abbandonandosi ad articolati pianosequenza dal puzzo digitale, un uso alquanto grottesco del commento sonoro, un comparto fantasmatico non certo esaltante ma comunque foriero di qualche curiosa trovata e, dulcis in fundo, un già citato criminalissimo editing che, nel suo voler essere a tratti forse fin troppo autoriale, finisce per incasinare ancor di più la già sconclusionata baracca narrativa, prendendo spunto dal suo sanguinario co-protagonista mascherato da Hannibal “Groucho Marx” Lecter e tagliando tutt’altro che metaforicamente con l’accetta intere sequenze senza il minimo senso del ritmo né gusto per l’intellegibilità. Ne vien fori, dunque, uno stucchevole Shining a vele tutt’altro che spiegate; confusionario ben prima dello scoccare del primo quarto d’ora – nonostante un sanguigno (e decisamente sanguinolento) incipit di tutto innegabile rispetto –, ingannevolmente capace di ritrovare la rotta durante il suo incalzante blocco centrale – grazie ad una discreta dose di truculenza e, strano ma vero, persino di un crescente interesse mano a mano che i pezzi del misterioso puzzle iniziano finalmente a ricomporsi – ma destinato infine ad infrangersi contro il mastodontico iceberg di un epilogo tanto telefonato nella sua insipida ovvietà quanto ostinatamente cervellotico nel momento di tirare i remi in barca. D’altronde, come cantava la pimpantissima Orietta Berti: Fin che la barca va, lasciala andare. E qui, è proprio il caso di dirlo, il buon Shore e la sua combriccola se ne sono andati bellamente alla deriva senza portarsi appresso nemmeno un misero ciambellone salvagente.