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La belva

2020
REGIA:
Ludovico Di Martino
CAST:
Fabrizio Gifuni (Leonida Riva)
Lino Musella (Antonio Simonetti)
Monica Piseddu (Angela)

Il nostro giudizio

La belva è un film del 2020, diretto da Ludovico Di Martino.

Non è scontato, quando capita, di vedere un film italiano che riesca a mantenersi dentro i binari del genere puro, anche se derivativo, inverosimile e con i caratteri dei personaggi rifiniti con l’accetta. La belva di Ludovico Di Martino si basa su una storia esile. Non c’è nulla da capire, a parte la violenza, la solitudine, la vendetta. Su questo piano il film funziona, ha ritmo e una certa audacia. Il protagonista, dal nome fin troppo evocativo di mitiche battaglie perse, (Leonida) interpretato alla grandissima da Fabrizio Gifuni, soffre di stress post-traumatico. Ha lavorato per trent’anni nelle Forze Speciali, che per capirci è una selezione dell’esercito italiano impiegata in missioni altamente pericolose e dai pesanti risvolti emotivi. Leo ne è uscito a pezzi. Ora è in pensione anticipata, preso a cercare di rimettersi insieme, anche se la terapia psicologica non funziona e tutto quello che riesce a fare per aiutare se stesso è imbottirsi di pasticche. Ha bisogno di un argine chimico per fare il bravo papà, rigare dritto come normale cittadino, occuparsi della casa e riuscire a dormire la notte. Quando all’improvviso qualcuno gli rapisce la figlia, la belva che è in lui, si libera travolgendo i malavitosi di turno. Leonida è l’ennesimo epigono rambista che il pubblico italiano conosce bene. Il soldato lasciato come un residuato a svernare fino alla morte, in una non vita, dopo tutto quello che ha passato e sacrificato per la patria, è il pane e marmellata con cui è cresciuta la generazione di fine anni 70.

Al tempo di Commando, Rombo di tuono, Gifuni era già grandino, aveva vent’anni e un’aria molto poco pop-corn e più da sofferto panino al prosciutto, ma con il cuore pieno di Taxi Driver, Guerrieri dell’inferno e Platoon, per non dire di Fenoglio e Che Guevara. Il regista Di Martino (classe ’92) e il produttore Rovere (classe ’82) sono invece cresciuti con ben altre storie e format. Loro partono dal reduce reaganiano, ma non tratteggiano un muscolare sborone che mastica sigari, bensì un dolente e spiritato ex-guerriero che piacerebbe al romanziere Sandro Veronesi; Leonida è un rigurgito di scuola cannibale che però si erge sull’esperienza di Frank Miller e non di Tarantino. Alla base del film è palese la riflessione milleriana (già indicata dal nome del protagonista) derivante da Sin City, vale a dire Marv il gladiatore, che può funzionare solo su un campo di sangue ma non in un ordinario quartiere di provincia, fatto di partitelle con i figli la domenica e di appuntamenti sentimentali su Facebook. Leonida è un claudicante rottame che si rimette in funzione e torna vivo nel momento in cui la guerra gli arriva in casa. La belva è un film che non vorrebbe strafare, cercando di tener su una storia dura e schietta. Pare facile ma in Italia è difficilissimo.

Non siamo più in grado, forse non lo siamo mai stati davvero neanche ai tempi di Germi e Di Leo. Lo spettatore, smaliziato e saturo di intrattenimento all’americana in streaming, è costretto a chiudere un occhio su fin troppe goffaggini narrative. Il rapimento della bimba che libera l’animale, tenuto prigioniero nell’anima di Leonida, è la risaputa occasione per una vera rinascita umana. Il protagonista affronta i propri incubi, recupera la parte sospesa che c’è in lui, annientata dai farmaci e una società respingente e liquida, e si ricuce insieme. Lui può funzionare solo se gli è permesso ancora di menare e uccidere. Il cavaliere nero caduto dal cavallo risale in groppa e massacra la vera feccia del sistema. Si prende cura dei figli a modo suo, come ha imparato in tanti anni di missioni. Così, brutalmente, recupera davvero il rispetto del figlio e della ex moglie. Dovrebbero essere sconvolti e spaventati, ma antropologicamente non possono che plaudire il grande guerriero che li ha difesi e salvati. Forse il nostro cinema di genere potrebbe iniziare davvero a crescere e farsi largo a livello internazionale, quando smetterà di seguire le norme di McKee e recupererà le proprie di regole. Non siamo fatti per l’intrattenimento puro, per le americanate. Noi abbiamo e avremo sempre un debole per la verità. E la verità è che Leonida in Italia non ci si chiama nessuno, che un ex soldato speciale contro un giro di criminali organizzati finirebbe per fare una brutta fine e probabilmente la figlia sparirebbe per sempre, fagocitata dal mondo delle tenebre che ci circonda. Ecco perché il film di Di Martino e il produttore Matteo Rovere si muove più nei meandri della fiaba che del noir modernista.