Featured Image

La bara bianca

2016
Titolo Originale:
Ataúd Blanco: El Juego Diabólico
REGIA:
Daniel de la Vega
CAST:
Julieta Cardinali (Virginia)
Eleonora Wexler (Ángela)
Rafael Ferro (Masón)

Il nostro giudizio

La bara bianca è un film 2016 diretto da Daniel de la Vega.

Avere a che fare con Daniel de la Vega è sempre un gran piacere. Indipendente fino al midollo, appassionato come pochi di quanto di più marcio e visionario si possa trovare in giro, il folle argentino ci ha regalato nell’ultimo decennio una sequela di opere e operette totalmente prive di qual si voglia freno inibitore, desiderose come non mai di farci assaporare quel marciume che solo un vero cane sciolto della macchina da presa è in grado di servirci su di un piatto d’argento, con a disposizione budget di gran lunga inferiori al cestino del pranzo della più malfamata comparsa di un qualunque cinecomic. Ed è grazie al succulento canale di Midnight Factory in quel di Prime Video se La bara bianca ha finalmente la possibilità di abbandonare i polverosi anfratti del sottobosco underground nel quale è stato relegato fin dal 2016 dopo gli opportuni passaggi festivalieri per essere orgogliosamente sdoganato ai quattro venti, dandoci l’opportunità di immergerci in un autentico incubo on the road ben imbevuto di misticismo e di quella sana dose di violenza “creativa” a cui il nostro pazzo cinecaballero ci ha ormai da tempo abituati. Il tutto mettendo per la prima volta al centro della narrazione quella malsana alcova di morte che, con insistenza quasi feticistica, compare, in un modo o nell’altro, in ogni singolo tassello della sua brulicante e sbarellata carriera.

A differenza dei ben più noti Death Knows Your Name (2005) e Necrophobia (2013) dove ci si immischiava in surreali e kafkiani lidi narrativi dai contorti risvolti quasi lynchani, La bara bianca permette al pazzo cineasta di Buenos Aires di imbastire una storia apparentemente ben più limpida e lineare, nella quale assistiamo alla terribile disavventura che colpisce a la povera Virginia (Julieta Cardinali) la quale, in fuga da una crisi matrimoniale dai risvolti non particolarmente piacevoli, durante una breve sosta in una tavola calda si vede rapire la propria pargoletta (Fiorela Duarda) da un losco figuro a bordo di un inquietante carro attrezzi. Partita all’inseguimento del malnato, la nostra farà la fortuita conoscenza di un misterioso viaggiatore (Rafael Ferro) il quale la informa che la piccola, così come altre sue sventurate compagniucce, è caduta nelle grinfie di una misteriosa setta che intende sacrificare innocenti anime nel corso di un arcano rituale, per ricevere in cambio una non ben precisata bara di legno bianco entro e non oltre un giorno dall’avvenuto sequestro. Inizierà così una vera corsa contro il tempo che vedrà l’intrepida Virigina darsi battaglia con altre due cazzutissime madri (Eleonora Wexel e Veronica Intile) per entrare quanto più velocemente in possesso del candido scrigno di morte custodito da un falegname tutt’altro che raccomandabile, cercando così di scongiurare l’imminente immolazione della propria primogenita.

Così come nel puro stile di de la Vega La bara bianca non fa mistero di essere interessato a tutto fuorché alla coerenza narrativa, preferendo inanellare una stuzzicante serie di situazioni al limite dell’assurdo che vedono nella follia estrema della messa in scena il loro principale punto di forza. Una setta, bambini rapiti, un gruppo di madri disposte a tutto e, ovviamente, anche qualche testolina mozzata e un pizzico di arti sventrati per non farci mancare nulla. Questi sono gli unici veri ingredienti degni di nota che il pazzo argentino sceglie di darci in pasto, non pretendendo in alcun modo di giustificare per filo e per segno la vera natura del mistico rituale di morte così come le contorte motivazioni che spingono i suoi oscuri officianti. Così come nel brumoso Vinyan dell’altrettanto sciroccato Fabrice du Welz, dove il procedere della detection vedeva il progressivo sfilacciarsi della fabula in favore di un malsana ricerca del desaparecido di turno, la sceneggiatura imbastita a quattro mani dall’inconfondibile tocco dei mitici fratelli Ramiro e Adriàn Garcia Bogliano, ci porta in una storia in cui parecchie cose strane accadono senza che nemmeno mezza venga realmente approfondita. Ma a noi interessa ben poco, poiché il tutto ci appare talmente credibile nella sua generale assurdità da immergerci completamente in ogni singola inquadratura, sino ad un epilogo talmente cinico e brutale da richiedere ben più di qualche oretta per allentare la sua tagliente presa dai nostri occhi e dal nostro cervello.