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La bambola assassina

2019
Titolo Originale:
Child's Play
REGIA:
Lars Klevberg
CAST:
Aubrey Plaza (Karen Barclay)
Gabriel Bateman (Andy Barclay)
Brian Tyree Henry (Detective Mike Norris)

Il nostro giudizio

La bambola assassina è un film del 2019, diretto da Lars Klevberg.

Karen (Aubrey Plaza) è una madre single piuttosto sbarazzina, con una storia di sesso e poco più con Shane (David Lewis), un uomo sposato e un poco stronzo. Andy (Gabriel Bateman), il tredicenne figlio adolescente di Karen, non vede di buon occhio la relazione e soffre anche per il trasloco che lui e la madre hanno appena fatto. Ad Andy, solo e senza amici, un bel giorno Karen regala Buddi, un bambolotto dotato di IA prodotto dalla Kaslan, in grado di connettersi con tutti i dispositivi dell’azienda, sviluppare “sentimenti” nei confronti di chi viene adottato e di apprendere man mano che si gioca con lui. Peccato che la bambola, battezzata involontariamente Chucky,  sia stata manomessa da un dipendente vietnamita della Kaslan, che dopo essere stato licenziato, si suicida. A Lars Klevberg (Polaroid), il primo indimenticabile capitolo della fortunata saga di Child’s Play, deve essere piaciuto proprio tanto, così come gli indimenticabili classici del cinema orrorifico degli anni ottanta, come Gremlins e Poltergeist. Klevberg, con La bambola assassina, dà una svolta alla saga del bambolotto killer – non solo riportandolo nelle sale, dopo il DTV degli ultimi due capitoli diretti dal papà del bambolotto, Don Mancini – ma sporcando il copione originale con una buona dose di fantascienza, una specie di Odissea nello Spazio nel mondo dei giocattoli.

Che ci piaccia o no, l’intuizione di adattare tutta la storia ai giorni nostri, tra millennials sboccati con la mano sempre sul telefonino, cloud e case domotiche, non è cosa da niente. Klevberg, con l’aiuto del bravissimo Gabriel Bateman (Lights Out) e Aubrey Plaza (Criminal Minds), aggiorna lo script originale di Mancini, diretto da Holland, reinventando quasi tutto, e accentuando la feroce critica sociale suggerita da Mancini e qui decisamente più lucida: il consumismo prima ti appaga, poi ti uccide. Klevberg dona al nostro Chucky una nuova personalità, si ispira a Ted ed E.T. per descrivere un robot giocattolo incosciente, che prima commuove e poi spaventa, efficacissimo su tutti i fronti, ma è evidente che non si tratta del Chucky dalla battuta facile, flippato per il voodoo e successivamente per la moglie-bambola Tiffany. A Klevberg non interessano i sequel diretti da Mancini, e tiene come riferimento i primi due film della saga. Il bambolotto degli anni 80 Good Guys diceva solo 4 quattro frasi, quello del 2019 ribattezzato Buddi (Good Guys è un marchio di Universal, che detiene i diritti di tutto il franchise, escluso il primo film) parla e impara come un modernissimo Furby.

Guarda il suo amico Andy con gruppo di amichetti mentre ride e scherza sulle morti atroci di Non aprite quella porta – Parte 2 (Tobe Hooper, 1986) e “pensa” che sia divertente uccidere se fa felice Andy. Nell’universo citazionista e distopico di Klevberg, Chucky (un po’ HAL 9000, un po’ Robocop), come tutti i giocattoli, finisce per essere prima accantonato e poi gettato via da Andy. Il rifiuto scatenerà nel robot una rabbia che non trova pace se non nel claim Friends ’till the end. Non importa se Don Mancini e David Kirschner non abbiano dato la loro benedizione al reboot, non importa se Chucky un po’ somiglia al Ken nazionale (ma durante la visione il suo nuovo look finisce per piacerti), e non importa nemmeno se la possessione e il rito abbiano lasciato spazio alla tecnologia, La bambola assassina, trent’anni dopo l’originale, funziona, commuove e spaventa. Se Mancini non fosse tanto arrabbiato per non aver diretto lui il remake, amerebbe tantissimo Buddi.