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Jason X: Morte violenta

2002
Titolo Originale:
Jason X
REGIA:
James Isaac
CAST:
Kane Hodder (Jason Voorhees/Cyber Jason)
Lexa Doig (Rowan)
Chuck Campbell (Tsunaron)

Il nostro giudizio

Jason X: morte violenta. Dove la X sta per dieci, ma forse indica anche il rated X, l’hard. Perché questo elemento della mitologia voorheesiana, sebbene non sia una tempesta di sangue, lascia comunque sul campo qualcosa come 25 morti, numero ineguagliato nel ciclo. Dunque, si arrivava dall’inferno del nono capitolo e si sale al cielo con il decimo. Per aspera ad astra. Qui, gli aspera sono gli sfracelli che Jason compie a bordo di un astronave nell’anno 2445, tre secoli dopo, cioè, che era stato deciso di ibernare il tremendo mammut, visto che né plotoni di esecuzione, né nodi scorsoi, né sedie elettriche di nessun tipo erano riusciti ad avere ragione del potere auto-rigenerante delle sue cellule. Con ordine: nel 2010 si era arrivati al partito, ultima Thule, di ghiacciare la belva, che a Crystal Lake in un laboratorio segreto troviamo incatenato a un marchingegno, tipo Sansone. Sembra in letargo, ma l’occhietto rimasto integro balla dietro la maschera da hockey, e promette malissimo. Difatti: David Cronemberg, che interpreta un medico che vorrebbe portarsi via Voorhees per studiarlo per il bene dell’umanità, trova Jason scatenato, nel senso che è sceso dal patibolo, si è levato i ferri e con questi scudiscia e strangola la scorta armata di Cronemberg e poi impala lui con un giavellotto. La ricercatrice che si sta occupando del protocollo di congelamento di Jason, Rowan (Lexa Doig) riesce tuttavia ad attirare il mostro nella camera criogenica e a sigillarcelo aprendo il gas. Ma un colpo di machete trapassa la paratia e la prende in pancia, inchiodandola lì, a morire e ibernarsi con Jason. Salto in avanti, a quando Terra uno, la nostra Terra, è diventata un deserto arancione calcinato. Una spedizione arriva da Terra due, dei tizi con pastrano e lucette entrano in un luogo sotterraneo, pieno di ragnatele, che si capisce presto essere il posto dove c’è Jason. La camera criogenica dopo trecento anni funziona ancora, e vabbé. Lui è lì, una statua di ghiaccio col machete brandito nell’atto di colpire e anche così pericolosissimo, perché quando uno degli sciocchi esploratori lo urta e lo fa cadere, la lama gli taglia via un braccio. Fantastico!

Portano il mostro e anche Rowan su un’astronave. La tecnologia ha fatto passi da gigante, ormai nel 2445 si riaggiustano braccia tagliate e si rianimano persino i cadaveri con l’ausilio di microinsetti che sembrano ragni, in grado di riparare di tutto di più. Suona come una cazzata, anche perché l’effetto in CGI è penoso. Ma teniamolo da parte che ci riserverà sorprese. Mentre risvegliano, dunque, Rowan, Jason fa da sé, si guarisce e rigenera per le proprie taumaturgiche virtù. E in men che non si dica è di nuovo in piedi e ready to kill. Jason lassù sembra un ossimoro, lo sfacelo del suo look fa a pugni con l’ipertecnologia che lo circonda, ma qui comincia la forza del film, da questo scontro logico-estetico tra il mostro e l’ambiente. Più che Alien, in fondo, varrebbe la pena di richiamare King Kong, per l’energia della contrapposizione. Il regista questa chiave di lettura ce l’ha presente: Jason è costretto ad adeguarsi al milieu per continuare a esistere. A un certo punto, risvegliatosi, si sceglie come arma un lucido, futuristico coltellone ricurvo, perché è quanto di più simile al machete che non ha più. Deve aggiornarsi anche lui che, in fondo, è sempre stato fuori dall’ordine del cosmo. I sopravvissuti, con Rowan a guidarli non sanno che pesci prendere, dopo che Vorhees ha sterminato una pattuglia di marines armati fino ai denti, e già che c’era ha macellato anche il pilota dell’astronave, mandandola a sbattere contro la base orbitante. Calano perciò l’asso di un androide femmina (Lysa Rydell), che cannoneggia Jason polverizzandogli una gamba, un braccio, aprendogli un cratere nel torace e facendogli esplodere la faccia. Amen: il futuro parrebbe quindi avere avuto ragione di Jason.

Senonché tutti gridano vittoria e si dimenticano dei suoi resti troppo in fretta. La tecnologia auspica la fortuita resurrezione dalla ceneri del maniaco, che gli insettini-medici, messi in moto da un corto circuito, reintegrano nelle parti carnee che restano e quelle che mancano le sostituiscono con materiali sintetici. Jason live!, solo che adesso è un arnese da cima a fondo nuovo, una fenice scintillante, metà bestia e metà macchina, la versione slasher di Terminator, con tutti e due gli occhietti rosso fiamma iniettati di odio: è il Voorhees post-moderno, vezzosetto, con un aria persino un po’ frocia. Diciamo che s’è fatto l’abito adeguato al suo divino catasterismo. A quel punto, è interessante come per fregarlo, rallentandone l’ultima carica contro i pochissimi sopravvissuti che stanno per abbandonare l’astronave, si cambi strategia. Se contro il vecchio Jason si è usato il futuro, contro il nuovo si mette in scena il passato. Nel senso che gli creano attorno un olografia tridimensionale con il paesaggio di Cristal Lake: il laghetto, i pini, una casupola in legno e due gnocche nude che gli fanno ciao ciao per aizzarlo. Lui ci casca e sbatacchia dentro i loro sacchi a pelo le due tipe che continuano a ridere. E questo è un colpo di genio. Come tutto il finalissimo in cui Jason espulso nello spazio esterno cadrà come un meteorite avvampante sulla Terra, avvinghiato dall’eroe sacrificatosi di turno. “Ho visto Satana precipitare come folgore dal cielo” diceva quel tale. Noi vediamo solo un punto luminoso che piomba in un lago sotto gli occhi di due fidanzatini che amoreggiano guardando le stelle. E un frammento della sua maschera scendere pian piano sul fondo limaccioso… ki-ki-ki-ki ma-ma-ma-ma