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Jack in the Box

2020
Titolo Originale:
The Jack in the Box
REGIA:
Lawrence Fowler
CAST:
Ethan Taylor (Casey)
Lucy-Jane Quinlan (Lisa)
Philip Ridout (Norman)

Il nostro giudizio

Jack in the Box è un film del 2020, diretto da Lawrence Fowler.

Dovessimo dar credito a quell’ignobile esordio che fu Curse of Witch’s Doll, beh, diciamo pure che ora il buon Lawrence Fowler non sarebbe certo ancora qui dietro a una macchina da presa, ma piuttosto in quel della Siberia a zappare ben bene la tundra. E invece, guarda un po’ tu come va il mondo, son bastati poco meno di un paio d’anni perché il nostro facesse pace con sé stesso e con il cinema tutto, dandosi finalmente una sana regolata e scodellandoci un’opera seconda di tutto rispetto. Certo, non è che Jack in the Box sia roba per la quale stracciarsi le vesti e inneggiare al miracolo, ma per gentaglia come noi a cui piacciono ammennicoli e pupattoli assatanati questo onesto filmettino non può fare certo alcun male; anzi. Soprattutto se il protagonista indiscusso è nientepopodimeno che un inquietantissimo pagliaccio a molla, di quelli che andavan forte ai tempi dei nostri bisnonni, un giocattolo apparentemente innocuo che tuttavia non sfigurerebbe per nulla affianco alla cara Annabelle nel ben noto museo degli orrori dei coniugi Warren, nascondendo in sé un piccolo quanto fondamentale segreto che non lo rende certo il regalo ideale da schiaffare in mano a figlioli e nipotini.

Partendo dalla fondamentale consapevolezza che bambole e bambolotti, comunque la si voglia mettere, fan sempre una dannatissima paura, Jack in the Box cavalca a spron battuto questa perturbante fobia per tutto ciò che, pur essendo inanimato, da tutta l’idea di non esserlo affatto, concentrandosi su di un antico scrigno intagliato, una sorta di Cubo di Lemarchand in formato gigante, recapitato da non si sa bene chi ad un piccolo museo di provincia. Ma al posto del pallido e borchiato Pinhead, il misterioso scatolotto cela nientemeno che un sadico clown assassino, incarnazione di un’antica entità demoniaca che ogni decade si risveglia dal suo letargo per esigere non una, non due, ma ben sei vittime attraverso cui assicurarsi un posto d’onore nel nostro mondo. Sarà compito del giovane stagista Casey (Ethan Taylor) e dell’avvenente collega Lisa (Lucy-Jane Quinlan) opporsi al malefico giocattolo a molla, rispedendolo, non senza spargimenti di sangue collaterali, nell’inferno da cui è venuto. Pur rimanendo saldamente ancorato, con tutti i pregi e i difetti del caso, agli sdrucciolevoli territori dell’indie, stavolta Fowler porta a casa, con Jack in the Box, una più che dignitosa fatica, dimostrando di essere dotato di una qualche minima briciolina di vero talento che, a maggior ragione, rende ancor più incomprensibile l’imperdonabile battesimo del fuoco di due anni or sono.

Mettendoci vero cuore e avendo tra le mani un’idea se non fresca quantomeno accattivante, il cineasta gallaese compie un lavoro di gran mestiere tanto con la penna quanto con l’obbiettivo, orchestrando alcune sequenze veramente suggestive che nulla hanno di che sfigurare al confronto dei ben più blasonati prodotti di genere di colleghi dal nome già instradato. Nonostante la meccanica narrativa rimanga ancorata a stilemi e dinamiche già ampiamente collaudati, con i suoi immancabili jumpscare e apparizioni d’ordinanza, il fascino del babau di turno è tale da mantenere desta la curiosità sino alla fine, complice anche e soprattutto una messa in scena che, data la natura del prodotto in questione, stupisce davvero in quanto cura e ricercatezza. Il grosso del lavoro viene infatti affidato, manco a dirlo, all’azzeccatissimo design del nostro pagliaccio indemoniato, autentico spauracchio infantile (e non solo) che già si prepara a sedere, se non al tavolo, quantomeno alla credenza di incubi dal nasone pittato del calibro di Pennywise, Capitan Spaulding e Art il Clown.  La fiducia in una possibile promozione è tale che, contro ogni previsione, ecco già pronto in cantiere un secondo capitolo, a dimostrazione di come, quando le cose son fatte bene, non serve avere un curriculum pentastellato per esser presi sul serio, abbonando di gran cuore anche qualche piccolo o grande incidente di percorso.