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Insidious – La porta rossa

2023
Titolo Originale:
Insidious: The Red Door
REGIA:
Patrick Wilson
CAST:
Ty Simpkins (Dalton Lambert)
Patrick Wilson (Josh Lambert)
Rose Byrne (Renai Lambert)

Il nostro giudizio

Insidious – La porta rossa è un film del 2023, diretto da Patrick WiIson.

Il Male, si sa, non muore mai veramente; il più delle volte, infatti, cambia solo forma e colore, pronto a rientrare spudoratamente dalla porta principale. E se è altrettanto vero che, come si sul dire, chiusa una porta si spalanca un portone, qualora il suddetto uscio si tingesse per l’ultima volta della stessa scarlatta tinta dell’Inferno (pardon, dell’Altrove ) beh, a quel punto la cinematografica frittata si potrebbe dire bella che fatta. Alla luce di ciò non vi è dunque alcun dubbio che Insidious – La porta rossa sia, se non la degna, quantomeno l’inevitabile conclusione – reboot e preannunciati spin-off permettendo – di una delle saghe orrorifiche più iconiche e redditizie dei turbolenti anni Dieci del Ventunesimo Secolo; capace, in oltre tredici anni di fierissima attività, di generare parecchie notti insonni e altrettanti dollarozzi nelle capienti tasche dello scaltro Jason Blum. E così, per riattizzare gli ultimi fuochi dell’incubotica creaturina partorita dalla fervida fantasia di quei birboni di James Wan e Leigh Whannell, così da mantenere il tutto, come si suol dire, in famiglia, ecco che in cabina di regia troviamo nientemeno che il fidato Patrick Wilson: fedelissimo e ormai veterano del Wan Cinematic Universe che, tra ultramondane scorribande negli Insidio(u)s(i) lidi e terrificanti sessioni di ghost hunting a domicilio alla medianica corte di The Conjuring, si troverà stavolta a compiere un ultimo rischiosissimo viaggetto astrale per salvare, ancora una volta, capra, cavoli ed extrasensoriale prole. D’altronde ormai si sa: con il buon Patrick, quando di mezzo ci si mette la famiglia, si sfonda sempre una porta aperta, alla facciaccia di quel tamarro di Dominic Toretto.

Nove lunghi anni sono infatti trascorsi dai raggelanti accadimenti di quell’Insidious 2 nel quale l’intrepido Josh Lambert (Patrick Wilson), dopo aver raggiunto i temibili Confini del male per riportare nell’Aldiquà lo spirito vagante del comatoso figlioletto Dalton – rimasto prigioniero del tenebroso Altro Mondo per mano (anzi, per artigli) di un caprino demonaccio dallo scarlatto faccione -, venne a sua volta tratto in salvo da un similare destino proprio dal suo redivivo primogenito. Non prima, ovviamente, di aver inavvertitamente portato con sé l’anima inquieta della sanguinaria Sposa in Nero, responsabile, per intercessa possessione, della soffocata dipartita della sensitiva Elise Rainer (Lin Shayne). Ma si sa che il tempo (e un’opportuna seduta ipnotica) cancellano in quattro e quattr’otto ogni brutto ricordo, lasciando tuttavia dietro di sé le subdole tracce di un trauma mai del tutto superato, condannando dunque il nostro ormai disilluso e tormentato ex Pater Familias  a doversi barcamenare fra la fresca dipartita della dolce mammina (Barbara Hershey), un altrettanto sofferto quanto inevitabile divorzio dall’amata moglie Renai (Rose Byrne), le schioccanti verità celate dietro al triste destino di un padre mai conosciuto e, ultimo ma non ultimo, il burrascoso rapporto con un Dalton (Ty Simpkins) divenuto ormai un (in)cazzuto giovane collegiale. E sarà proprio quest’ultimo che, durante la sua prima lezione d’arte nella sua nuova liberatoria università, in un modo del tutto inaspettato inizierà involontariamente ad evocare, tramite i propri oscuri e sibillini disegni, un Male che si pensava ormai, se non morto, quantomeno bello che sepolto fra le nebbie di un passato – e di un Altrove – che mai avrebbe dovuto essere sollazzato. Ma d’altronde si sa: morto un medium se ne fa subito un altro, con o senza laurea ad honorem. Grazie dunque all’aiuto della ciarliera compagna di stanza Chris (Sinclair Daniel) e del bistrattato paparino affetto nel mentre da terribili visioni, ecco che il nostro imberbe medianico Goya si troverà costretto ad affrontare vecchie malevole conoscenze che, a differenza del proverbiale postino, non si prenderanno certo la briga di bussare tre volte prima di piombare alla festa tra capo e collo, con o senza invito.

Al netto di qualche ruffianissima rubacchiata a mani basse dal seminale immaginario del sempreverde It Follows e di un paio di sequenzine dall’inspiegabile (e si spera involontario) gusto trash, Insidious – La porta rossa, pur giocando furbescamente con un inevitabile effetto nostalgia, cerca insistentemente di assumere una propria fiera identità. A cominciare dalla volontà – purtroppo in gran parte concentrata nella sola stuzzicante prima parte – di impiegare l’involucro horror per parlaci di un sofferto e più che mai profondo rapporto parentale destinato a replicarsi pressoché invariato di generazione in generazione. La storia di un Dono straordinario quanto terribile, non certo voluto ma che deve pur sempre essere accolto quale lascito di un padre al proprio figlio, in nome di quella lunga stirpe (tanto umana quanto cinematografica) di Eletti che “vedendo la gente morta” di questi irrisolti trapassati ne diverranno guide e custodi. Tutte bellissime intenzioni, non c’è che dire, quantomeno sulla bidimensionalità di quella carta vergata da Scott Teems su ispirazione del Sacro Verbo del vate Whannell. Peccato che, al momento di far quadrare i conti e di venire al sodo, la pellicola diretta dall’esordiente Wilson – che non sarà certo James Wan, ma che il suo (s)porco lavoro ha dimostrato di saperlo fare più che discretamente – finisce per cedere al richiamo dei soliti stanchi cliché del genere, mettendo in scena un modesto e sbrigativo ultimo atto all’insegna di una  reunion di vecchi mostruosi amichetti e nuovi babau tutt’altro che memorabili, ben infarcita di jumpscare a ripetizione e giusto quel pizzico di suggestivi incastri temporali divenuti ormai marchio di fabbrica dell’intero Insidi(o)s(o) Universo. Sono infatti le consuete raggelanti atmosfere bagnate dalla plumbea fotografia targata Blumhouse e punteggiate dai dissonanti accordi di Joseph Bishara a traghettarci senza troppa infamia né altrettanta lode verso un frettoloso epilogo – figlioccio, forse, di qualche taglio di troppo in sala montaggio -, questo si, realmente emozionante e catartico; il primo realmente conciliante e, in un certo qual modo, pieno di quella melanconica speranza che nessuno degli iconici scary ending dei precedenti capitoli è mai riuscito sinora a donarci. Segnale che, forse stavolta per davvero, quantomeno per la cara famiglia Lambert tutte le porte si sono finalmente (e tutto sommato decorosamente) chiuse, senza Ultime Chiavi né nuovi stucchevoli Inizi all’orizzonte.