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Inexorable

2021
REGIA:
Fabrice du Welz
CAST:
Benoît Poelvoorde (Marcel Bellmer)
Mélanie Doutey (Jeanne)
Alba Gaïa Bellugi (Gloria)

Il nostro giudizio

Inexorable è un film del 2021, diretto da Fabrice du Welz.

Se non fosse ancora chiaro, è giunto il momento di gridarlo a chiare lettere: il regista belga Fabrice du Welz è uno tra i più importanti Autori del cinema europeo (e non solo) contemporaneo. E quella A maiuscola non è un refuso, bensì un rafforzativo per identificare il Nostro come un artista che utilizza il genere per scardinarne i codici dall’interno e creare qualcosa di nuovo. Perché du Welz non è, come ha sostenuto qualcuno, un regista horror, e paragonare la sua opera prima Calvaire a film come Martyrs, Frontiers e Alta tensione (giusto per citare autori francofoni) è pura follia; né tantomeno si può inquadrare in un genere preciso Vinyan, il suo personale Cuore di tenebra. Dopo le due incursioni nel noir/poliziesco, con il marmoreo e sottovalutato Colt 45 e il violentissimo Message from the King, il regista aveva concluso la cosiddetta “trilogia delle Ardenne” – includente in precedenza Calvaire e Alleluia – con Adoration, un delirante coming of age dal sapore schizofrenico e omicida. Una trilogia, però, che evidentemente non era ancora terminata, visto che du Welz torna a mettere in scena un amore folle e malato con il thriller psicologico Inexorable, presentato di recente per la prima volta in Italia al Noir in Festival, un film che aggiunge un ulteriore tassello alla sua collezione cinematografica di perversione e morbosità. Da buon autore a tutto tondo, lo stesso regista scrive soggetto e sceneggiatura (insieme ad Aurélian Molas e Joséphine Darcy Hopkins), ambientando la storia ancora in Belgio. Protagonista è Marcel Bellmer (Benoît Poelvoorde), uno scrittore che dopo il successo del suo romanzo Inexorable sta cercando la giusta ispirazione per partorire una nuova opera. L’occasione perfetta sembra essere il trasferimento nell’immensa villa di proprietà della moglie Jeanne (Mélanie Doutey), il cui defunto padre era l’editore che per primo aveva pubblicato le opere di Bellmer: lo scrittore si trasferisce così, insieme alla consorte e alla figlioletta Julie, nella nuova casa, non senza un timore reverenziale verso il ricordo del suocero. La quiete della villa, circondata da un immenso parco, sembrerebbe fornire all’uomo le condizioni ideali per tornare a scrivere, se non fosse che nella loro vita fa progressivamente irruzione una ragazza misteriosa, Gloria (Alba Gaïa Bellugi): dopo averla conosciuta in modo apparentemente casuale, i coniugi Bellmer stringono sempre più amicizia con la giovane, che conquista anche la fiducia della bambina. Da parte sua, Gloria adotta una serie di stratagemmi per farsi assumere in qualità di domestica nella villa, come se avesse un piano: la ragazza è infatti legata in modo misterioso al passato di Marcel, e la sua presenza si farà sempre più morbosa e invasiva, fino a disvelare una verità inaspettata.

Al di là di ogni classificazione, di fatto Inexorable può essere considerato un nuovo capitolo di una filmografia in costante divenire. Nel film, infatti, torna praticamente tutto il mondo di Fabrice du Welz, dall’amore deviato al sesso, dai misteri ai delitti e alla fusione panica fra Eros e Thanatos, in una lenta ma inevitabile (inesorabile, appunto) discesa nella follia umana, narrata con una sottigliezza penetrante che è una cifra stilistica del regista. Fabrice du Welz non avrà infatti il delirio allucinogeno di Gaspar Noé (anche se talvolta ci va vicino) o la perfezione apollinea della coppia Cattet/Forzani, ma sa creare thriller psicologici di forte impatto emotivo, in questo caso anche con ascendenze dal cinema classico: dalla stalker di provenienza neo-noir (citiamo Attrazione fatale) ai ritratti di borghesia in nero dipinti da Claude Chabrol, passando per il sottile gioco psicologico de Il servo di Joseph Losey – ma troviamo echi anche da opere moderne, come l’irruzione nella vita altrui in stile Parasite. Quale sua abitudine, du Welz non sceglie grandi star come protagonisti, ma attori di classe del cinema belga che si immergono anima e corpo nella verve recitativa (soprattutto le due donne), in una sorta di metodo Stanislavskij. La recitazione, che dalle soglie standard si spinge sempre più nei vortici della follia con urla ed espressioni marcate, è un tratto fondamentale del suo cinema, così come l’uso del corpo in funzione di un erotismo sempre deviato e disfunzionale, anche se – rispetto per esempio ad Alleluia – qua le scene erotiche sono fin troppo trattenute, e in questo consiste forse l’unico limite di Inexorable. Prima, durante un focoso tentativo di amplesso (dove vediamo fugacemente il seno prosperoso della Doutey), l’uomo non riesce ad avere un’erezione, e a nulla vale il pompino della moglie; in un’altra scena, Poelvoorde la masturba freneticamente cercando di eccitarsi col dirty talking; infine, quando Marcel sta per scopare con Gloria, vengono interrotti da eventi esterni, mentre la ragazza in un momento di follia lo morde al collo.

Perché Gloria è una creatura misteriosa, ripresa spesso nell’atto di osservare la vita dei coniugi in una sorta di gelosia malsana, ed è più volte inquadrata nell’atto di morsicare, come una vampira. Gloria è un mistero, anzi è “il” mistero attorno a cui ruota tutta la storia, una passione incestuosa che affonda le proprie radici nel passato, in alcune lettere misteriose conservate da Marcel e nella stesura stessa del romanzo Inexorable, che si rivelerà fondamentale per l’evolversi della vicenda. Durante il film, che si prende i suoi tempi senza mai annoiare, du Welz costruisce un enigma, un mistero costante, un disvelamento progressivo che scivola sempre più nella pazzia, perché Inexorable – così claustrofobico, misterioso e perverso – è la storia di un amore proibito, di un’ossessione che ha le caratteristiche del titolo: ancora una volta, come nella “trilogia”, du Welz mette in scena un amore folle e totalizzante, in una girandola di eventi sempre più convulsa e frenetica che culmina in un finale convulso quasi da home-invasion, con un abbraccio sanguinario di amore e morte che è la quintessenza del regista. Così come sono squisitamente tipiche del Nostro la danza frenetica della bambina e le urla isteriche, le quali riecheggiano il folle ballo collettivo di Calvaire, la danza panica di Alleluia, o le crisi nervose della protagonista di Adoration. Anche questa volta, du Welz presta un’attenzione maniacale non solo al contenuto ma anche alla forma, grazie a un ricercatissimo lavoro sulla fotografia, sulle inquadrature e sulle scenografie, mentre le musiche danzano o stridono insieme ai protagonisti e a noi spettatori: vediamo ad esempio luci e ombre disegnate sui volti dei personaggi e sugli interni, giochi di luce (come i frequenti rossi immersivi marcatamente duwelziani), le scale a spirale di derivazione hitchcockiana, fino a sottigliezze come l’occhio nella serratura che va in dissolvenza sulle scale, a testimonianza di un gusto estetico ricercatissimo, e di una fusione non comune tra furore dionisiaco e rigore formale apollineo.