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Il sol dell’avvenire

2023
REGIA:
Nanni Moretti
CAST:
Nanni Moretti (Giovanni)
Margherita Buy (Paola)
Silvio Orlando (Ennio)

Il nostro giudizio

Il sol dell’avvenire è un film del 2023, diretto da Nanni Moretti.

Il sol dell’avvenire lo abbiamo visto letteralmente, sebbene di cartapesta, nel finale di Palombella rossa (1989), ambientato al Circo Massimo. Tutti i personaggi del film, con la mano che tendeva verso l’utopia di quel sole finto, erano riuniti lì, compreso il bambino che impersonava Michele/Nanni da piccolo e che rideva inconsapevole e beato. La scena, sottolineata dalle note gravi di Nicola Piovani, era onirica ma non consolatoria, bensì terribilmente amara, chiusura di una riflessione dolorosa che attraversava tutto il film. È chiaro dunque, anche dal nome del circo presente nel Il sol dell’avvenire, Budavari (pallanuotista antagonista in Palombella rossa), come la pellicola del 1989 diventi un importante termine di dialogo per il Moretti attuale, compresa tutta la prima parte della sua filmografia fino agli anni’90. Due parole sulla trama: il regista Giovanni sta girando un film ambientato nell’Italia del 1956 su Ennio (Silvio Orlando), redattore dell’Unità nonché segretario di quartiere del PCI, messo in crisi dall’invasione sovietica dell’Ungheria. Parallelamente il matrimonio di Giovanni con Paola (Margherita Buy), la moglie produttrice, va in pezzi senza che egli se ne renda conto. Infine la trama di un nuovo film, sulla storia di una giovane coppia, scandita da canzoni italiane famose, prende corpo nella sua fantasia. È dunque una sorta di ritorno a casa questo di Nanni, alle modalità e ai toni che gli sono da sempre più congeniali e che, automaticamente, riscuotono l’affetto di chi lo ha sempre seguito e amato, compreso chi scrive. Se da un lato la riproposizione, soprattutto nella prima parte, di idiosincrasie, insofferenze e nevrosi tipicamente morettiane (l’odio per determinate calzature, la passione per i dolci, la stigmatizzazione dell’ignoranza e della superficialità delle generazioni attuali), rappresenta certamente un comodo rifugiarsi in sé stesso, dall’altro si percepisce la dolorosa riflessione scaturita dal confronto con un presente in cui è difficile riconoscersi e col quale diventa quasi impossibile confrontarsi.

Riguardo questo valgano le due sequenze che di certo entreranno nelle prossime antologie di scene cult morettiane: in primis quella riuscitissima del dialogo con i dirigenti di Netflix, in cui questi ultimi impongono l’applicazione pedissequa di termini anglofoni quali slowburn (e altri che non anticipiamo qui) nella scrittura di sceneggiature che si conformino al famigerato algoritmo. L’altra, paradossale e felicemente woodyalleniana, vede invece l’intransigente Giovanni interrompere le riprese di un film, prodotto dalla moglie Paola, diretto da un giovane regista modaiolo, proprio nel momento culminante di una violenta esecuzione a mano armata di un personaggio. L’esilarante sospensione della scena viene però prolungata in modo eccessivo e l’intervento didascalico di alcuni personaggi della cultura e dello spettacolo (non anticipiamo chi) rende la gag tirata troppo per le lunghe, quando bastava invece la bellissima rievocazione di una scena di Breve film sull’uccidere di Kieślowski, a rendere efficace la riflessione, in parte datata, su estetica e violenza. Tra l’altro l’accorato racconto della scena Kieślowskiana rappresenta l’unico momento in cui Moretti abbandona finalmente quella recitazione lenta, innaturale e straniata/nte che adotta ormai già da Tre piani (2021) e che risulta a volte stridente. Anche il ricorrere insistito all’intrusione musicale di brani famosi di musica italiana (tra cui l’amato Battiato), di coreografie improvvisate, nonché del cantare sguaiato in auto, rientrano in un armamentario cinematografico morettiano ampiamente collaudato, che diventa una sorta di coccola gratuita nei confronti del pubblico abituale.

L’ingegnoso intersecarsi di piani narrativi differenti, la confusione tra realtà e immaginazione filmica, la riflessione meta-cinematografica, costituiscono da sempre dei punti di forza della filmografia morettiana e fa piacere ritrovarli nel Il sol dell’avvenire. D’altro canto, citando una storica intervista televisiva del 1989 di Enrico Ghezzi allo stesso Nanni, in cui il famoso critico e ideatore di Fuori Orario rilevava argutamente l’esattezza paurosa con cui i film di Moretti fotografavano le derive morali del nostro paese, connettendosi in modo implacabile alla realtà storica e sociale che vivevamo, è difficile adesso non avvertire una sfaldatura tra l’amara riflessione del Il sol dell’avvenire e una realtà verso la quale il nostro non possiede più strumenti di decodifica, e neppure gli interessa più possederli. Meglio dunque rifugiarsi, tarantinianamente, nella capacità mitopoietica del cinema di riscrivere la storia e di rendere credibili le utopie, in questo caso quella di un partito comunista italiano emancipato da Mosca. E’ infatti a partire da qui, da quando il regista Giovanni invita i suoi collaboratori a re-immaginare il finale del film fittizio, che Il sol dell’avvenire si colora di una dimensione gioiosa contagiosa e che ritrova quel vigore espressivo, leggero e al tempo stesso profondo, che caratterizza il cinema di Moretti. Fino all’onirico, bellissimo e commovente finale che vede in rassegna non solo gli attori principali di quest’ultimo film, ma anche quelli storici, provenienti dall’intera sua filmografia. In questo nostalgico e felliniano riallacciarsi alle figure che hanno costellato i suoi film, non si può non ravvisare una sorta di dolce commiato ad una stagione irripetibile del cinema di Nanni, nonché un augurio, rivolto a sé stesso ma che facciamo anche nostro, di trovare nuove traiettorie e modalità per narrare ancora con vigore il nostro presente, le nostre speranze e il nostro smarrimento.