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Il nome della rosa

2019
Titolo Originale:
The Name of the Rose
REGIA:
Giacomo Battiato
CAST:
John Turturro (Guglielmo da Baskerville)
Rupert Everett (Bernardo Gui)
Damian Hardung (Adso da Melk)

Il nostro giudizio

Il nome della rosa è una serie tv del 2019, creata da Giacomo Battiato.

Per avvicinarci alla serie de Il nome della rosa, occorre compiere un gesto quasi trascendentale: mettere da parte il film di Annaud che, per quanto ben riuscito sotto molti punti di vista, è liberamente ispirato al romanzo di Eco. Una volta fatto questo, possiamo guardare la serie. Produzione italo-tedesca, scritta e diretta da Giacomo Battiato, venduta in 135 paesi e mandata in onda in prima serata su Rai 1, ha avuto una pubblicità martellante e ossessiva, anche grazie al cast che vanta nomi eccellenti. Di sforzo, almeno inizialmente, ce ne vuole tanto, per non vedere già nella sigla un rimando ad un’altra serie fantastico-medievale, fatta di congiure; complotti e assassini. Forse si parte prevenuti, ma ci si chiede se è volontà della produzione compiere una scelta tale, mirata ad acchiappare quanti più fan della febbre del trono. La vicenda comincia e si concentra con Adso da Melk (Damian Hardung), giovane novizio figlio di un nobile imperiale, che invece di seguire le orme marziali del padre, sceglie la vita monastica. Egli è testimone oculare di eventi terribili; attraverso una narrazione soggettiva, come nel romanzo, vediamo i fatti attraverso occhi giovani e inesperti. Assieme al suo maestro Guglielmo da Baskerville (John Turturro), si dirigono in un’abbazia a nord della penisola, al confine con la Francia, per discutere della povertà di Cristo. Giungeranno su luogo teatro di delitti oscuri e toccherà risolverli prima dell’arrivo dell’Inquisitore Supremo, mandato direttamente dal Papa. Nella serie tv assistiamo a diversi piani narrativi, vengono aggiunti punti di vista esterni che nel testo sono assenti o soltanto accennati; memorie di monaci e ricordi personali. È il caso dei dolciniani, la setta eretica di ispirazione vagamente francescana, che terrorizzò le lande novaresi a cavallo del tredicesimo e quattordicesimo secolo.

Mentre nel libro la storia degli eretici viene narrata dal cellario Remigio da Varagine, come memoria e confessione, qui vengono mostrate le vicissitudini di un gruppo di eroi ribelli, che salva la gente da soprusi restituendo loro dignità e libertà. I dialoghi lasciano poco spazio alla introspezione o alla caratterizzazione dei personaggi, tutto sembra abbozzato sulla scena. Flashback e rimandi a eventi passati, o solo distanti nello spazio, stancano e disorientano lo spettatore, tanto da rendere confusionario l’intero arco narrativo. Partendo dal presupposto che il romanzo di Umberto Eco non è accessibile ai più, forse l’utilizzo di spiegoni si rende necessario per accompagnare lo spettatore attraverso un intricato periodo storico, lungo un giallo atipico pieno di giochi e riferimenti culturali e letterari. Il nome della rosa è piena di rimandi, costruzioni a scatole cinesi, personaggi complessi e una circostanza storica che vede la cattività avignonese, la disputa tra Chiesa e Impero e la quaestio sulla povertà della Chiesa. Ma voler mostrare troppo è un punto debole, perché disorienta e allontana dalla vicenda, a volte risultando imbarazzante, come l’apparizione del primo morto con l’uso di un distorsore vocale che, oltre a rendere incomprensibile quello che dice, è ridicolo e antiquato. Gli effetti speciali sono piatti e datati ma, per fortuna, ci vengono propinati poche volte durante la narrazione. Stesso discorso per gli interpreti che appaiono artefatti, enfatizzando aspetti e difetti, finendo per rendere i personaggi caricature. Rupert Everett, nel ruolo del demoniaco inquisitore Bernardo Gui, realmente esistito, sembra un villain da romanzo d’appendice incrociato con un Oscar Wilde in abiti talari.

James Cosmo, interpreta il venerabile Jorge da Brugos, figura chiave del romanzo, memoria e coscienza dell’abbazia, tuttavia non sembra penetrare a fondo lo spirito del personaggio. Il vero protagonista della vicenda, Guglielmo da Baskerville (John Turturro), una sorta di Sherlock Holmes ante litteram che utilizza il metodo del rasoio di Occam, nel testo è un vulcano, a volte violento e arrogante, qui appare mite e distaccato e non arriva a dare personalità al personaggio. Spicca, invece, Michael Emerson, (Lost, Person of Interest) che interpreta l’ambiguo abate Abbone da Fossanova. Il ritmo di Il nome della rosa scorre lento e senza colpi di scena, tutto appare lineare, frammezzato da altre storie che caricano un arco narrativo già pieno: la storia di Gui o quella di Anna, figlia di Margherita e Dolcino (inesistente nel romanzo) che passa l’intera serie a dare la caccia all’assassino dei suoi genitori. Molta attenzione è data alla biblioteca, vera protagonista della storia: vengono mostrate le stanze, dedali mortali fatti di trappole, illusioni e trabocchetti. Inutile e noiosa è la storia di amore tra Adso e la bella occitana che instaura col giovane novizio un rapporto fatto di sguardi, preghiere, insegnamenti e sesso. Non mancano comunque i lati positivi: l’ambientazione dell’abbazia è perfettamente ricreata: complotto, mistero e cospirazione si mostrano a volte in piccoli gesti o sguardi che lasciano presagire segreti profondi e oscuri, creando nello spettatore quella voglia di scoprire di più e invitandolo a cercare un colpevole tra i vari monaci. Il finale apocalittico, con la combustione del santuario del sapere, abbonda di effetti speciali, gli stessi di cui non sentivamo la mancanza, e di scene involontariamente comiche.  Come la morte di Aymaro (Roberto Herlitzka) travolto da un cavallo in fiamme mentre recita i versi dell’Apocalisse o quella dal sapore martirizzante del cellario (Fabrizio Bentivoglio), avvolto dalle fiamme purificatrici in posa cristica.