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Il mostro di St. Pauli

2019
Titolo Originale:
Der Goldene Handschuh
REGIA:
Fatih Akin
CAST:
Jonas Dassler (Fritz Honka)
Margarethe Tiesel (Gerda Voss)
Katja Studt as Helga Denningsen

Il nostro giudizio

Il mostro di St. Pauli è un film del 2019, diretto da Fatih Akin.

Il quindici luglio del 1975 un appartamento di Ottensen, quartiere del distretto di Altona, Amburgo, prende fuoco. I pompieri intervenuti a sedare l’incendio recuperano un macabro reperto, il torso di una donna chiuso in una busta di plastica. La polizia tedesca arresta Fritz Honka che confessa, per poi ritrattare con la scusa di non ricordare, l’omicidio di quattro donne, tra il 1970 e il 1975. La sentenza: quindici anni di ospedale psichiatrico, con l’attenuante dell’abuso di alcool. Der Goldene Handschuh, in Italia Il mostro di St. Pauli, racconta gli omicidi di Honka, la sua vita derelitta, partendo da quel kneipe sudicio in cui il killer adescava le vittime. Il “golden glove” del titolo anglofono è infatti il locale di Amburgo dove il mondo squallido dipinto dal regista, Fatih Akin, si mostra in tutta la sua triste decadenza, specchio iperrealista di una società crollata e risorta, alle prese con la ricrescita economica e il terrorismo della Rote Armee Fraktion.

In questo ambiente malsano si muove Honka, restituitoci da un bravo Jonas Dassler pesantemente truccato nell’accentuazione della mostruosità. Il suo killer non è un uomo che si può salvare o perdonare, così come la redenzione di tutta quell’umanità disumana dipinta da Akin sembra impossibile. Ed è proprio qui, in questo punto, che Il mostro di St. Pauli crea una potente dicotomia: che cosa stiamo realmente guardando? L’esercizio di stile di un autore che maschera le pecche di sceneggiatura con una violenza fine a se stessa, oppure uno sguardo altro, diverso e più complesso, sulla vita di un assassino? La risposta non è univoca, non può essere uguale per tutti, poiché quello che Akin mette in scena sono i dettagli, i suoni, la puzza di morte che quel mostro si porta appresso. Sì perché nel mostrare, impietosamente, gli omicidi, mai una volta si insinua il dubbio che Honka sia una vittima della società o delle persone che lo circondano. Tutt’altro, Fritz Honka è un alcolizzato che sfoga la sua frustrazione nel femminicidio, scegliendo le più deboli, le ultime della società. E Akin sceglie di avvicinarsi, di sedersi accanto a lui nello squallido appartamento dove fa a pezzi i corpi, imbrattato da sporcizia e foto di pin up alle pareti.

Gli siede accanto nel golden glove e costringe anche lo spettatore a farlo, viaggiando nella bestialità omicida in un modo così privo di filtri protettivi che, alla fine di tutto, si prova qualcosa di strano. Sia esso disgusto, pietà, orrore o fastidio, Il mostro di St. Pauli, nella sua notevole ricostruzione, gioca sugli aspetti più sgradevoli senza però mai far scadere il grottesco nell’ironico. Anzi, sbattendo in faccia allo spettatore tutto quello che c’è da vedere, senza stemperare nulla, mostra sì il male in una delle sue forme peggiori, ma anche e soprattutto la vulnerabilità, la solitudine e la perversione che può celarsi nell’animo umano. E quella dicotomia sopra citata sprofonda in quest’abisso di umanità, portando sostanzialmente lo spettatore ad apprezzare o meno il lavoro di Akin. Un lavoro certamente imperfetto e criticabile, ma capace di toccare il difficile tema dell’autodistruzione umana senza scadere in facili e inutili derive moralistiche.