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Il mio nome è Shangai Joe

1973
REGIA:
Mario Caiano
CAST:
Chen Lee (Shangai Joe)
Klaus Kinski (Scalper Jack)
Gordon Mitchell (Burying Sam)

Il nostro giudizio

Il mio nome è Shangai Joe è un film del 1973, diretto da Mario Caiano.

Sulla scorta del grande successo, anche italiano, di 5 dita di violenza di Cheng Chang Ho, nel 1973 si realizzarono alcuni western contaminati con tematiche kung-fu, ma quasi esclusivamente in chiave farsesca. Tra essi spicca, per l’impianto, invece, “serio”, Il mio nome è Shangai Joe, diretto da Mario Caiano, già stato tra i padri fondatori dell’eurowestern con Le pistole non discutono. Nel raccontare l’avventura di Shangai (Chen Lee, degno rivale dei personaggi interpretati da Lo Lieh e Wang Yu, al quale l’aspetto fisico e il doppiaggio italiano di Ferruccio Amendola aggiungono qualcosa che ricorda Dustin Hoffman), il cui diritto di vivere nel West, difendendo anche i peones messicani dai soprusi dei cattivi di turno, viene rivendicato a suon di pugni e calci volanti micidiali, Caiano si diverte, visibilmente: da un lato, evoca l’atmosfera dei film di Hong Kong trasponendola negli scenari western italo-spagnoli, e dall’altro delinea un bestiario di mostruosi cattivi, che tutti insieme in una sola volta, con caratteristiche tanto estreme, non si erano mai visti.

Opposti al generoso Chen, i killers del possidente Spencer (interpretato da Piero Lulli, pure lui molto più sinistro del solito), si presentano: Pedro il cannibale (Robert Hundar), un eremita in stracci da cavernicolo che si nutre di carne umana e vive in una catapecchia nelle praterie; Sam il Becchino (Gordon Mitchell), che usa uccidere le vittime seppellendole e cantando loro una canzone; Tricky il baro (Giacomo Rossi Stuart, al quale, dopo un’ottima sequenza d’azione nel saloon, Chen strappa gli occhi, in un tripudio di splatter che è il più limpido omaggio al film di Cheng Chang Ho); infine, il sadico psicopatico Scalper Jack (Klaus Kinski in una delle sue memorabili caratterizzazioni), che ha una predilezione nello scotennare viva la gente. L’ultimo dei sicari al soldo di Spencer riporta invece Chen alle sue origini, poiché l’intrepido cinese deve battersi con Katsutisji Mikurya, un allievo del suo stesso maestro marziale in Cina. Lo scontro, nello stile tipico dei kung fu movies, è un finale omaggio a due generi cinematografici che tanti punti avevano in comune e il cui cross-over era sancito in quegli anni anche nelle edizioni italiane di film hongkonghesi alle quali venivano disinvoltamente applicate colonne sonore di western italiani, più o meno celebri. Anche in Il mio nome è Shangai Joe le musiche di Bruno Nicolai sono di riutilizzo da Buon funerale amigos!… paga Sartana, ma qui trovano la loro collocazione più adatta, viste le sonorità tipicamente orientali.

Salvo alcune parti in Italia, il film fu per lo più girato in Spagna, a Colmenar Viejo (Madrid) – solo lo spazio di due giorni – e per il resto degli esterni in Almeria, al Poblado de l’oeste de Fraile, ora Minihollywood, nella rambla di Tabernas e a Gador e nelle sue scene d’azione vide impegnati più di 45 tra cascatori e cavalli. Sono indubbie le capacità registiche di Mario Caiano, che, anche in un genere “contaminato” come questo – sempre a rischio di parodia –, riesce a imprimere vigore e ritmo alla vicenda, senza la benché minima caduta di tono, nonostante i personaggi siano molto fumettistici e “colorati” e la violenza talmente esasperata – ma allo stesso tempo molto realistica e inattesa (come nella sequenza di Tricky il baro) – da lasciare lo spettatore allibito. In questo senso, però, il massimo lo tocca Klaus Kinski nella sequenza con Carla Romanelli: quest’ultima, legata a un letto, deve assistere allo scotennamento di Chen, ferito alle gambe e immobilizzato pure lui, mentre Scalper Jack si trastulla con delle bamboline alle quali applica vecchi scalpi di chissà chi…