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Il gatto a nove code

1971
Titolo Originale:
Il gatto a nove code
REGIA:
Dario Argento
CAST:
Karl Malden (Franco Arnò)
James Franciscus (Carlo Giordani)
Catherine Spaak (Anna Terzi)

Il nostro giudizio

Il gatto a nove code è un film del 1971, diretto da Dario Argento.

Il secondo film di un autore rappresenta sempre un salto attraverso il cerchio di fuoco del rischio, soprattutto dopo un successo del calibro di L’uccello dalle piume di cristallo. Il gatto a nove code invece, che esce nelle sale l’anno dopo, preferisce  mantenersi a freno, seguendo e perfezionando diligentemente le linee di uno schema ideologico già di per sé innovativo ed efficace, perché impostosi per quel suo sapere incontrare (e al contempo formare) la modernità delle attese dei nuovi spettatori di un genere ben codificato nell’immaginario come il giallo. A conti fatti, quindi, la prova successiva di Dario Argento diventa la conferma di un talento inoppugnabile che qualitativamente trasferisce il giovane regista a capofila della scacchiera degli interpreti del disordinato panorama del thrilling nostrano degli albori del decennio Settanta, promovendolo così in quella sua vocazione appassionata di diventare “l’Hitchcock del cinema italiano”. Capovolgendo alcuni assunti di fondo rispetto al maestro inglese, Argento mette il rigore stilistico in funzione, più che della logica della narrazione, della seduttività del narrato, intinta di una visionarietà psichedelicamente onirico-surreale.

Nella filmografia argentiana Il gatto a nove code sembra quindi un ponte obbligato, si ammanta cioè della parvenza di un esercizio di buona scrittura, pronto a qualificarsi nella sfida di una dimostrazione consapevole del mezzo cinematografico. Ed è per questo, probabilmente, che viene ricordato come uno dei film meno sentiti, meno ispirati di Argento, quello che segue professionalmente il tracciato classico di un racconto a inchiesta poliziesca. Tuttavia, nell’involucro fermo della struttura, l’estrosità creativa di un interprete ebolle e si fa sempre più impellente, segnando l’originalità di uno scarto fruttuoso dallo studio delle “buone letture” visive dei vari Hitchock o Fritz Lang, le cui suggestioni verranno rimodellate alla luce e nel ventaglio cromatico della tradizione del cinema seriale italiano, iniziato da forti personalità come Mario Bava. Ne sono testimonianza le varie uccisioni esasperate, la sequenza necrofila del cimitero, l’ultima con la morte pirotecnica del “mostro”. Ma fondamentale in Il gatto a nove code è la presenza di due polarità espressive di forte impatto che si contendono la visione dello spettatore. Da una parte c’è l’azzurra cecità dell’enigmista, il giornalista in pensione interpretato da Karl Malden, la cui indagine è meramente cerebrale e ha la necessità di accompagnarsi all’innocente percezione degli eventi che ha la nipotina o alla forza dell’azione del giovane James Franciscus; dall’altra l’iride dell’occhio gigante che invade lo schermo in un battito di ciglia che ha il suono di uno scatto freddo di macchina fotografica e che diventa il luogo astratto dell’intento omicida, la biglia della follia lucida da cui eromperà l’annuncio del truculento.

Un occhio, quest’ultimo, destinato a imporsi come un enunciato semantico distintivo nella rappresentazione dei giochi psicopatologici del cinema di Dario Argento (si pensi a Profondo rosso, per esempio) e che in seguito riceverà numerose variazioni. La riduzione di uno sguardo logico-cognitivo contro uno sguardo abnorme e allucinato da cui si origina irrazionalmente la matericità del dramma. I due attori del film sono questi: due aspetti quasi ineffabili di una paura cieca che si rincorrono nell’apparenza banale delle cose quotidiane, sullo sfondo di una clinica privata dove si svolgono studi di ereditarietà genetica. La spiegazione teorematica, “l’arrivo” razionale del giallo, è per Argento secondario già qui, quando è ancora agli esordi. Il suo interesse è concentrato a sviluppare la resa virtuosa dei fondali arabescati e seduttivi della paura. Il rebus è proprio la doppia faccia pulsionale di desiderio/repulsione dell’orrore della psiche profonda. La musica di Morricone, gli effetti sonori e quelli visivi, la smodatezza dell’uso della soggettiva, la frammentarietà meccanica in cui si svolge alla maniera di puzzles l’efferatezza degli assassinii, tutto il dispendio propriamente tecnico e l’esaltazione perfino dei vari disequilibri di sceneggiatura o di focale vengono messi in atto da Argento snobbando la tenuta della storia in sé e portando il linguaggio del regista, originale e commerciale insieme, al di fuori dei confini geografici.