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Il caftano blu

2022
Titolo Originale:
Le Bleu du caftan
REGIA:
Maryam Touzani
CAST:
Saleh Bakri (Halim)
Lubna Azabal (Mina)
Ayoub Missioui (Youssef)

Il nostro giudizio

Il caftano blu è un film del 2023, diretto da Maryam Touzani.

L’omosessualità nel mondo arabo è ancora nascosta, occulta, oscena nel senso di fuori scena. Non che in Occidente sia poi tanto meglio, ma almeno il cinema tende a tematizzarla spesso, seppure nei suoi limiti e stereotipi. Meno frequente invece è vedere un queer movie girato in Marocco. È il caso de Il caftano blu della regista Maryam Touzani, presentato al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard, dove ha vinto il premio FIPRESCI, e dal 21 settembre nelle sale italiane. Partiamo dal titolo: il caftano è l’antica veste lunga musulmana, il kaftan di origine persiana, che il maestro Halim lavora nel suo negozio tradizionale nella medina di Salé, Marocco. Il blu è il cromatismo più pregiato della stoffa, ma il blu è anche il colore della tristezza, la malinconia, la non realizzazione. Il matrimonio con la moglie Mina viene infatti gravato da un non detto: Halim è un uomo che gay che partecipa a incontri fugaci con altri uomini, nel probabile silenzio e accettazione della consorte, con cui peraltro ha un rapporto solido fatto di profonda complicità. D’altronde non è un ambiente in cui si possa vivere serenamente la propria identità sessuale. Il “problema” si pone quando prende servizio il nuovo apprendista, il giovane Youssef, già all’opera dall’inizio, e i due uomini nella penombra della bottega iniziano ad avvicinarsi.

Non vi aspettate in questo caso un esplicito film LGBTQ+, al contrario. Come si addice al contesto sociale in cui è calato, l’ipotesi di rapporto tra Halim e Youssef si dispiega in silenzio, tra lezioni di cucito e sguardi furtivi, come la soggettiva dell’uomo maturo sulle mani sottili del giovane, in una vera e propria forma di sartoria sentimentale. Per ogni novità spiazzante la prima reazione è la negazione, del resto è umano, quindi i primi avvicinamenti fra i due si risolvono in nulla di fatto, in un ritrarsi comprensibile per evitare l’esplosione del dramma. Intanto la moglie Mina assume gradualmente un ruolo sempre più centrale, sino a farsi fondamentale: la donna accusa i sintomi di una malattia letale e allo stesso tempo rivela una presa di coscienza nei confronti del marito, che si fa illuminata e illuminante quando consiglia ad Halim di non nascondersi più e seguire l’oscillazione del cuore.

Nell’arco di due ore si sviluppa una vicenda composta di omissioni e sfioramenti, che avanza prendendo il suo tempo, permettendo ai personaggi di realizzare gradualmente la propria condizione. E l’assoluta centralità visiva resta assegnata alle stoffe, magnifiche, che vengono lavorate nel negozio come simbolo della tradizione ineffabile da mantenere, che però va aggiornata spaccando il guscio per percorrere la strada personale verso la libertà. Proprio nell’indugio sui caftani, e sulla loro preparazione, il racconto sconta una deriva estetizzante che lo avvicina a tratti agli stereotipi del film d’autore (piani fissi, affettazione eccessiva, lentezza programmatica). Anche così però la vicenda riesce ad aprirsi all’universale, a uscire dal tema omosessuale comunque centrale per intavolare un discorso sull’amore, sulla sostanza del sentimento che riguarda e vale per tutti.