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Il buco

2021
Titolo Originale:
Il buco
REGIA:
Michelangelo Frammartino
CAST:
Claudia Candusso
Giovanbattista Sauro
Antonio Lanza

Il nostro giudizio

Il buco è un film del 2021, dirertto da Michelangelo Frammartino

Di fronte a un film del genere è difficile non questionarsi addirittura sulla sua stessa natura di film. Il buco di Michelangelo Frammartino è in primis una ricostruzione degli eventi che hanno portato un gruppo di speleologi italiani fino al fondo della grotta del Bifrunto, in Calabria, a una profondità di 1480m. Si tratta di una delle prime grandi conquiste dell’ambito effettuate da esploratori italiani, in quanto, al tempo, risultava essere la seconda grotta più profonda mai esplorata (attualmente, con più recenti indagini e la scoperta di nuove cavità, è scesa circa al quarantesimo posto). Abbiamo, dunque, da una parte una ricostruzione il più fedele possibile, dal piglio quasi documentaristico, di tutti gli eventi, con un’effettiva discesa anche della videocamera stessa fino ai 1480m. A dare credito storico ai fatti sono le numerose immagini d’archivio che si inframmezzano a quelle ricostruite. Ciò che crea il cortocircuito, d’altra parte, con il meccanismo di ricostruzione storica e lo posiziona ambiguamente rispetto alla realtà fattuale, è il montaggio alternato che segue in parallelo alla discesa, anche la malattia che colpisce un anziano pastore calabrese, fino alla sua morte. Oltre alla lampante analogia tra discesa e morte, ciò che mi pare essere più interessante è la discrepanza temporale tra le vicende del vecchio (che è un effettivo anziano dei pascoli della Sila, trovato e assoldato proprio durante le riprese da Frammartino e la sua crew) e quelle ricostruite, che si situano negli anni ’60 del boom economico.

Questa molteplicità temporale resa, dunque, con immagini d’archivio del tempo, scene storiche ricostruite (oltre all’impresa al centro del film, possiamo anche inserire qui le meravigliose scene di raccordo dove troviamo i ragazzini raggruppati nelle strade del borgo e incollati alle prime televisione) e scene senza una connotazione di tempo ben precisa, dal carattere quasi universale (sono le sequenze dell’anziano pastore), oltre a essere inusuale per un film con un’evidente premessa di adesione alla realtà, sposta l’attenzione su ciò che invece è unico e singolare, ovvero lo spazio dell’altopiano della Sila (pur essendo sdoppiato tra il chiuso della spelonca e della casa e il fuori dell’accampamento e dei pascoli). Ciò che viene messo in risalto è, perciò, la grotta del Bifrunto e il territorio della Sila che la ospita, mentre brevi sono le scene (quasi esclusivamente di archivio) milanesi, da dove partono gli speleologi. Il discorso che emerge è perciò quello di assoluto radicamento al territorio da parte di chi lo abita, lo vive e lo lavora, in piena sintonia con i ritmi del luogo, tanto da esserne elemento fondante (mi riferisco al “non-protagonista” del film che è l’anziano pastore). La discesa nella grotta e quindi l’indagine e la scoperta del territorio e indagine parallela nella sua persona.

Lui rimane, in sostanza, l’unico personaggio (oltre che, simmetricamente, la stessa Sila), con tratti definiti e riconoscibili del film. Gli speleologi, nonostante il grande protagonismo che viene dato loro per l’enorme risultato cui sono giunti, rimangono pressoché indistinguibili tra di loro e assumono soltanto la funzione di ospiti/visitatori, partecipando da acusmatici alla dimensione di culto misterico che aleggia nel corso di tutto il film. Con il supporto dell’occhio del direttore della fotografia Renato Berta, che pone molto l’attenzione sul carattere indefinito del colore nero della cavità e il montaggio di Benni Atria dal ritmo mai eccessivamente accelerato, viene evocata una sensazione quasi magica di inaccessibilità a una parte del reale che è propria del folklore locale e può solo essere avvertita, ma non pienamente partecipata, dagli speleologi e da noi visitatori, che prendiamo in parallelo le sembianze di esploratori.