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Histoire d’amour

1979
Titolo Originale:
Le Toubib
REGIA:
Pierre Granier-Deferre
CAST:
Jean-Pierre Bacri
Henri Attal
Michel Auclair

Il nostro giudizio

Histoire d’amour è un film del 1979, diretto da Pierre Granier-Deferre. 

In apparenza, è una storia d’amore drammatica come decine di altre. Anche se la personalità di Alain Delon è talmente strabordante, la sua presenza talmente sottolineata, insistita e mitologizzata in ogni inquadratura, che la sua partner del caso, la pur bella e morbida Veronique Jannot rischia – senza retorica – di passare inosservata. Delon c’è ovunque e pare di vederlo anche quando non è in scena. Comunque, la peculiarità di questo film, lacrima-movie a tutti gli effetti, non è il delonismo esasperato, ma l’atipico sfondo della passione che sboccia per vivere non più del tempo di una falena, tra il burbero medico che è Delon (le toubib del titolo originale è termine gergale francese per indicare “il medico militare”) e una sua giovane infermiera, afflitta da una malattia polmonare senza rimedio. Entrambi sono impegnati in un ospedale da campo della Croce Rossa, durante il terzo conflitto bellico mondiale che all’epoca del film (1979) si immaginava nel 1983, quindi alle porte.

Dove sia esattamente dislocata questa unità sanitaria, attrezzata con enormi camion adibiti a sale chirurgiche, non lo si dice (“quelque part”), né lo si capisce e nemmeno è chiaro quali siano esattamente le parti contendenti – benché il primario dell’unità, Michel Auclair, pronunci panegirici contro il marxismo. Delon è stato proiettato lì dalla sua dimora di campagna, dove nella scena iniziale lo abbiamo visto – barba lunga e sguardo perso – piantato dalla moglie e consolato dalla sorella (Francine Bergé) e dal suo cane Marius. La Jannot è un bocciolo di rosa che arriva dall’avere assistito dei soldati vittime del gas, il che spiega come mai si sia fregata i polmoni, tossisca sempre e si senta mancare spesso e volentieri. Delon, con lei, è quello che ci sia aspetta che sia: prima freddo e scorbutico (durante la visita a un malato sotto morfina, mostra alla ragazza, per metterla in imbarazzo, il pene involontariamente eretto del paziente), poi man mano piegato e conquistato dalla dolcezza e dalla semplicità della giovane, che ha il nome-presagio di Harmonie – Harmonie ou les horreurs de la guerre è il titolo del romanzo del 1973 di Jean Freustié dal quale il film è stato tratto. Che un destino di morte penda sul capo di lei, Delon lo sa fin da subito, quando la sottopone a una schermografia. Ma non si capisce se rimuova il pensiero o non lo accetti. Questa è una stranezza della storia e anche un’effrazione delle regole del genere, per cui la cognizione della malattia crea ipso facto la drammaticità e dà il via al countdown. Qui no.

Delon e la Jannot vivono la loro passione senza che l’ombra della condanna di lei torni minimamente a profilarsi, se non quando, mostrate le lastre ad Audiard, questi ribadirà che per Harmonie non c’è scampo. In mezzo, però, altre tragedie intervengono, con un meccanismo che i classici definivano exaggeratio: Bernard Giradeau – che per il ruolo fu candidato a un premio César come miglior attore non protagonista – è uno scanzonato e simpatico collega di Alan Delon, il quale se lo vede morire sotto gli occhi, sul tavolo operatorio, mentre gli sta estraendo delle schegge di granata da una gamba. Una lunga, allucinante parentesi, si apre poi quando i due protagonisti partono per una missione in una zona che è appena stata linea di fuoco, alla ricerca di eventuali sopravvissuti. Deferre non risparmia immagini crudissime di cadaveri scempiati, sciolti e “fusi” con la terra, la cui visione provoca nella povera Harmonie una comprensibile crisi isterica. Le armi di sterminio di questo possibile futuro comprendono anche delle piccole mine che restano appese agli alberi e che, attivate da sensori di suono, esplodono lanciando intorno frammenti micidiali: e sarà proprio uno di questi ordigni, prima che la malattia, a uccidere Harmonie mentre corre in un campo di papaveri. Rosso tra il rosso. Fine.