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Helmut Berger, Actor

2015
Titolo Originale:
Helmut Berger, Actor
REGIA:
Andreas Horvath
CAST:
Helmut Berger
Andreas Horvath

Il nostro giudizio

Helmut Berger, Actor è un documentario del 2015, diretto da Andreas Horvath

Bastano pochissimi minuti per amare Helmut Berger, Actor. La partenza è su Berger, che in casa sua, seduto davanti al televisore, si infila la mano nei pantaloni del pigiama e comincia a masturbarsi. Poi si ferma, porta la mano al viso, alla bocca. Annusa. Poi ricomincia. Due o tre volte. A un certo punto, guarda in macchina, dice: “Cut”. Senza venire. Stacco su una vecchia foto che lo ritrae negli anni Settanta – non riconosco il film, ma sembrerebbe Il Dio di nome Dorian – e voce di Helmut che dice: «I Am a Actor!». Helmut Berger, gigantesco e fragile. Gigantesco nel senso che fa parte di quella genia di attori titani del passato, ponderosi, impegnativi, totalmente ombelicali e fieramente egocentrici, folli ma con una solida struttura dietro. Attori-segni, attori mostri, cioè capaci di mostrare qualcosa, di rimandare ad altro. Occhi che hanno visto cose che noi mortali… Divi divaeque, dei e dee. Guardo Helmut Berger e penso a Tomas Milian, anche se era più vecchio di dieci anni, Tomas. Ma il conio, lo stampo, la matrice arcana è quella, la stessa che ha prodotto Delon, che ha prodotto Kinski. Poi, siamo d’accordo, Berger dice “I am a Actor” e intende dire sono stato e continuo a essere una diva. Il documentario dell’austriaco Andreas Horvath non è una featurette. Non illumina, pettina, accarezza o lecca Berger. Lo svela, a mo’ di agguato, con la tecnica del brigante da passo, entrando negli interstizi della sua esistenza, dentro e fuori quel suo micro-appartamento stipato di cose alla periferia di una città austriaca. Dimora povera ma ricca di cimeli, oggetti, ninnoli, fotografie, medicine, tra un cesso in vista e i caloriferi scrostati. Lo squallido & il sublime.

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Helmut fuma e beve, beve e fuma, in pigiama ma con grande classe. Guarda la tv e parla con il regista. Non c’è aneddotica da set, niente cinema, se non per sbaglio. Le interviste sono il fuori scena, i racconti che rimangono oltre i limiti dell’inquadratura. Un paio di volte cadono nella scena lacerti di pettegolezzi, i bassifondi della storia del cinema che poi sono l’unica storia degna di essere raccontata e ascoltata. Tipo quando Berger allude al fatto che la moglie lesbica di Bertolucci voleva farsi a tutti i costi Maria Schneider. Che grande storia sarà stata. Berger dà del naif al regista del documentario, che si stupisce. Ma restano cose così, affioramenti di un altrove che Horvath ha totalmente ostracizzato dal suo film. Helmut appare e scompare dall’appartamento. Una parte dei racconti sulla sua vita li narra Viola, una signora di mezza età che gli va per casa rassettando e ordinando. Un’altra parte sono le telefonate registrate, che Helmut spesso fa al regista nel cuore della notte. La grande bellezza del documentario sta proprio qui, in questo esserci e non esserci del suo protagonista o esserci di traverso. Come una specie di dio che si rivela in maniera obliqua. Non è una tecnica che abbia inventato Horvath, ma di certo lui la padroneggia in maniera magistrale. Quanto avranno concordato con Berger? Quanto è struttura? Quanto è fatale conseguenza delle cose, accettata e resa arte?

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Un momento sostanziale arriva quando Helmut parte per Saint Tropez per festeggiare Capodanno lontano dal freddo e dalla neve austriaca. Il regista è con lui. Aereo, suite lussuosa in una grande albergo: chi pagherà, visto che Berger non ha più nemmeno gli occhi per piangere? Eppure è tutto tres chich, le cameriere gli fanno la riverenza, nel suo accappatoio di spugna bianco, mentre fuma e beve birrette a tutto spiano. Berger parla tedesco, inglese, francese, italiano, cambia lingua di continuo, come gli viene in quel momento. È spocchioso e stronzo, con Horvath, il quale tace e abbozza. A un certo punto, mentre guardano la tv in camera, dopo una mezza litigata, scoppia la granata: Helmut dice al regista che si è innamorato di lui. Era nel copione, in fondo. Ce lo aspettavamo. Viene il capodanno, vengono i fuochi sul lungomare e la notte di balli, bevute e palloncini nella casa degli amici bene di Berger. Fino all’alba del mattino dopo, quando, nel freddo delle prime luci, Helmut ubriaco perso, cerca un taxi, non lo trova, non vuole essere ripreso e insulta Horvath, il quale, a questo punto, esplode e gliene dice di ogni. Una pattuglia della polizia carica Berger e lo porta via. Tutto sembra essersi definitivamente rotto, spezzato. Ma non è così. Si trattava solo dell’ennesimo coup de theatre prima del gran finale. Di nuovo nell’appartamento austriaco dell’attore. Fuori la neve e il freddo. Il regista si è fatto convincere a incontrare di nuovo Helmut. Lo sta riprendendo mentre lui, disteso nel letto, sagoma nera nel controluce di una enorme lampada rotonda, impugna “lo scettro del comando” masturbandosi con foga. Il rash final, hard, la totale autoimmolazione dell’attore, che intanto chiede a Horvath di avvicinarsi, perché lo vorrebbe vedere, toccare. Stacco su una foto di Visconti. Finché la mano di Helmut si riempie del suo seme. Poi si tira giù il cashemere sul ventre bagnato. E l’immagine va a nero… Niente ho mai visto che mi desse il senso ultimo e profondo e il distillato della solitudine, più di Helmut Berger, actor. Capolavorissimo.