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Happy End

2017
Titolo Originale:
Happy End
REGIA:
Michael Haneke
CAST:
Isabelle Huppert (Anne Laurent)
Jean-Louis Trintignant (Georges Laurent)
Mathieu Kassovitz (Thomas Laurent)

Il nostro giudizio

Happy End è un film del 2017, diretto da Michael Haneke

Non c’è più solo il cinema che ambisce a raccontare una storia. Attraverso l’uso dei nuovi dispositivi visuali, oggi nelle mani di chiunque, le immagini hanno il potere di riportare il cinema al grado zero della finzione conservando la traccia ‒ memoria e oblio ‒ degli eventi nell’istante in cui sono accaduti. Ne sono emblema quelle scioccanti che troviamo in Happy End, riprese dallo smartphone di una tredicenne e dalla telecamera di sorveglianza di un cantiere, sguardo imparziale che si alterna e si sovrappone a quello autoriale del racconto. Da un lato il video, prepotente estetica del narcisismo, al quale per ottenere un dramma basta il rapporto di pochi elementi, dall’altro il cinema che trasforma i rapporti fra più elementi in una storia, per conferire loro un significato. Happy End inizia con le riprese di Eve, una ragazzina adolescente, che mostrano sua madre in bagno, mentre si prepara per andare a dormire, subito dopo un criceto in gabbia che muore perché Eve gli ha somministrato dei farmaci, infine la madre sdraiata sul divano mentre la figlia dice che chiamerà un’ambulanza. Sono interessanti le riflessioni sull’invadenza dei nuovi dispositivi visuali, che si impongono prepotentemente nella pratica della vita quotidiana, quanto le modalità narrative con cui la sintesi filosofica viene applicata alla vicenda messa in scena.

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Happy End ritrae una famiglia dell’alta borghesia di Calais in cui i personaggi sono cinici e aridi fino all’abiezione: Georges, anziano uomo d’affari in pensione, non nutre affetto per alcuno dei suoi congiunti, è stanco di vivere e vuole uccidersi; la figlia, Anne, è un’algida imprenditrice fidanzata con un ricco banchiere; il figlio medico, Thomas, dopo aver abbandonato moglie e figlia (l’adolescente Eve, che è costretto a tenere con sé dopo la morte della madre), ha una nuova moglie e anche una relazione clandestina (che si consuma principalmente in chat) con una musicista; il nipote, Pierre, è un trentenne sbandato dedito all’alcool e alla vita notturna. La routine dei Laurent è scossa da un incidente in un cantiere dell’azienda familiare che provoca la morte di un operaio immigrato. Happy End non dice dunque nulla di nuovo rispetto all’ideologia nichilista che caratterizza la filmografia di Michael Haneke: decadenza morale di una ricca borghesia perfida e marcia in cui i bambini non possono perdere l’innocenza e la gioia di vivere perché non l’hanno mai avuta, così sadici e cinici da non risparmiare dalla propria crudeltà nemmeno la propria madre e gli animali domestici.

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L’impressione, come sempre, è quella che il regista voglia provocare uno shock nello spettatore e il film deve essere in grado di sostenere il peso del suo teorema nichilista. I protagonisti di Happy End esprimono pensieri e sentimenti funzionali a raggiungere l’obiettivo dello shock morale, osservati a distanza (come da cifra stilistica dell’autore) mentre replicano la messa in scena di un repertorio metaforico ormai consolidato. La storia della famiglia Laurent, infatti, rimette in gioco le idee ossessive sui rapporti umani malati, completati in questo caso anche dal razzismo: la malattia morale della borghesia rappresenta il declino dell’intero mondo occidentale. Dopo il crudele ritratto della famiglia borghese in decomposizione, Haneke depone le armi di narratore dalla vena caustica per approdare a un sottile equilibrio fra la tragedia e la farsa. Non è tanto il contenuto dell’epilogo finale quanto la sua forma ‒ l’immagine imparziale, quel ritorno del cinema al grado zero della finzione (la ripresa di Eve con lo smartphone) che si sovrappone agli eventi della storia ‒ a sbalordire realmente e a lasciare il segno.