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Hammamet

2020
Titolo Originale:
Hammamet
REGIA:
Gianni Amelio
CAST:
Pierfrancesco Favino (Bettino Craxi)
Livia Rossi (la figlia)
Alberto Paradossi (il figlio)

Il nostro giudizio

Hammamet è un film del 2020, diretto da Gianni Amelio.

Più di Volonté Moro, più di Servillo Andreotti, Pierfrancesco Favino è Craxi. Lo è, quasi ontologicamente, non soltanto per abilità mimetica, per studio di tic e movenze, per trucco e parrucco. Raramente, anzi mai, è capitato di assistere a una identificazione più profonda e viscerale. Scomoderei persino il concetto di transustanziazione. Hammamet è questo e tanto basterebbe a decretarne il valore assoluto. Perché di fronte a una simile identità, il resto slitta in secondo piano. Ma il resto, nel film di Amelio, c’è. C’è anche quello. Craxi è il poco prima e il moltissimo dopo la bufera nera che lo travolse con una pioggia di monetine all’uscita del St. Raphael, quando coloro che lo invocavano sulla forca ancora dovevano capire, come fanno oggi, anno del signore 2019, che un giorno lo avrebbero rimpianto. La sceneggiatura chiude il cerchio del proprio interesse tra le mura calcinate della dimora fortezza tunisina, dove Bettino consumò il tempo che gli restava. Sedendo sulla spiaggia bianca e aspettando, nei giorni tersi di vento, di vedere lontano, sulla linea dell’orizzonte, la linea sfuocata dell’Italia. Nel cerchio magico dei suoi cari, la moglie, la figlia, il nipote, il figlio, Craxi attende. Attende ovviamente la morte, che nel film arriva alla fine, in sostanza, ma in essenza alita fin dall’inizio. La morte è in tutte le cose che circondano lo statista. Nel refolo di sangue che gli macchia pantaloni e scarpe, come segnale della cancrena che gli sta mangiando una gamba. Nei piatti di pasta e nei gabaret di dolci che il colosso (per la stazza, ma non solo per quella) divora come non dovrebbe, perché il diabete ha piantato saldi i propri quartieri nel suo corpo.

Ma queste sono cose piccole, segnali minimali. La morte per Craxi indossa il volto di un messaggero (Luca Filippi), un ragazzo figlio di un amico che nottetempo penetra nella fortezza, schivando i proiettili delle guardie armate. La morte non si uccide, infatti. Il giovane entra subito nelle sue grazie, nonostante porti su di sé i segni della stranezza, di una difformità sospetta. Taciturno, umbratile, ondivago per gli spazi della tenuta, egli diventa il testimone di ciò che Craxi è stato e di ciò che Craxi è. Ma soprattutto di ciò che Craxi sarà, in aeternum. Ne registra le confessioni ultime, le verità definitive, per mezzo di una videocamera. E poi, a un certo punto, scompare, per riapparire solamente nell’epilogo del film che si salda, col movimento serpentino dell’uroboro, all’inizio, nell’immagine di un vetro sfondato. Che non è solo un vetro sfondato, ma è lo squarcio dell’ultimo diaframma. Hammamet è carico di simbolismi, quanto voluti, quanto cercati, non so e mi interessa poco, francamente. Ci sono e questa è l’unica cosa che conta. La politica, e si intenda la storia politica di Bettino, è una sorta di convitato di pietra al desco di questa storia, così crepuscolare e fredda, benché bagnata dalla luce accecante del sole tunisino. La politica con le sue sciagure è il passato, dentro la villa che è già un limbo: non è più la vita ma ancora non è il Nulla. Hammamet è un film sulla transizione, sul passaggio verso l’ultimo varco, oltre il quale Bettino stesso si interroga in una delle scene più belle, se Dio esista. Lui sa che non esiste, ma quell’angolo di dubbio è lì a roderlo.

È un grande film, Hammamet? A lume di naso, direi di sì. Ma la decantazione della Storia, in opere del genere è necessaria. Ai posteri, dunque. Che è, in fondo, la morale finale della storia craxiana. Il cast, come è giusto e ovvio che sia, regge bordone a Favino, al quale niente e nessuno, in questo contesto, può essere lontanamente paragonato. Livia Rossi è la figlia e si distingue. A Claudia Gerini viene affidato il ruolo episodico di una delle amanti che vola in Tunisia per vederlo una delle ultime volte. Brava, soprattutto perché coglie fenomenologia e sostanza di quel tipo di donna che la persona reale cui allude (i nomi non si fanno, nel film, mai, per nessuno: il che è anche importante per la portata universale, esemplare, di ciò che è finito sullo schermo) incarnava. La sterzata nel sogno, verso la fine, poteva anche mancare senza detrimento alcuno, ma c’è e la accettiamo per buona. Così come è un di più, l’incontro con i turisti beceri (dipinti senza alcuna luce di grottesco, purtroppo) che reclamano la verità sui soldi rubati. Unico neo: la musica di Piovani, che non c’è.