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Greta

2018
Titolo Originale:
Greta
REGIA:
Neil Jordan
CAST:
Isabelle Huppert (Greta)
Chloë Grace Moretz (Frances)
Maika Monroe (Erica)

Il nostro giudizio

Greta è un film del 2018, diretto da Neil Jordan.

Il celebre detto rassicura sul fatto che chi non muore, prima o poi, in un modo o nell’altro, si rivede. E, almeno stando ai riscontri del Toronto International Film Festival 2019, nonostante una sofferta pausa di ben sei anni sabbatici durante la quale, eccezion fatta che per la breve incursione televisiva de I Borgia, sembravano essersene ormai perdute irrimediabilmente le tracce, il caro vecchio Neil Jordan appare ad oggi tutt’altro che cinematograficamente prossimo alla dipartita. E mentre anche i più blasonati e illustri colleghi di cinepresa paiono soccombere uno dopo l’altro a una devastante demenza filmica senile, il buon cineasta irlandese torna a calcare l’insidioso terreno del set con Greta, un piccolo, geometrico, godibilissimo e inquietante psycho thriller che ci tematizza – decisamente meglio dello spocchioso Unsane di Soderbergh – le pericolosissime derive di un legame nato e cresciuto all’ombra dell’ossessione più pura e oscura. E se già il barocchissimo Byzantium, in perfetta complementarietà a Solo gli amanti sopravvivono dell’amico e collega Jarmush, aveva contribuito a proferire l’ultima oggettiva e definitiva parola in materia vampiresca, stavolta è nuovamente la meccanica di genere ad essere chiamata in causa dallo zio Neil, in rispettosa osservanza a quella perturbante e viscida tensione che attraversa a più riprese la sua ricca e variegata filmografia.

Strizzando l’occhio in maniera alquanto compiaciuta, ma mai feticistica, ai sacri modelli del caso, la pellicola, plasmata su di un soggetto di Ray Wright, gioca tutte le sue carte attorno a un semplice e apparentemente casuale tête-à-tête fra la giovanissima Frances (Chloë Grace Moretz al suo secondo ruolo azzeccato in carriera dopo il Suspiria di Guadagnino) e la decisamente più attempata Greta (Isabelle Huppert ormai a proprio agio a sguazzare nel torbido dopo il sadomasochismo di Elle), congiunte da un rispettivo sofferto lutto che le ha precocemente private di un caro affetto. A farle incontrare, nel mezzo dell’accidentato terreno della vita, sarà una borsetta (involontariamente?) dimenticata sul vagone della metropolitana che, come il più classico dei MacGuffin hitchcockiani, porterà la fragile orfana di madre al cospetto dell’affettuosissima Signora ancora intenta a piangere la scomparsa della figlia. Inutile dire che da qui inizierà a fermentare un rapporto estremamente intenso e profondo, alimentato dal corrispettivo dolore, il quale, però, a lungo andare, finirà per sfociare in qualcosa di decisamente distorto e pericoloso. Almeno per una delle due donne. Jordan è uno che non ha mai fatto mistero di amare il lato più marcio e inquietante della medaglia dell’esistenza, pescando a piene mani dal cinema tout court per dar forma a questa sua sinistra ossessione. Alla luce di ciò, dunque, non stupisce più di tanto constatare i mille e più debiti che Greta paga nei confronti dei grandi Maestri della tensione e del mistero, primo fra tutti Sir Alfred in persona.

Ma più che alla schizofrenia di Psycho, la pellicola pare decisamente più vicina a una rivisitazione della segregazione ossessiva del Misery kinghiano, ben condita dai reflussi sadici e vagamente torture porn di un Takashi Miike con una spolveratina di cinefilia depalmiana, foraggiata dal sempreverde archetipo della femme fatale. Ed è proprio il caro De Palma che, a torto o a ragione, in più di un’occasione potrebbe avanzare qualche pretesa di copyright riguardo al proprio Passion, non fosse che per il malatissimo e deflagrante legame (affettivo? amicale?) fra due entità femminili prossime al punto di rottura, in puro stile neo noir. Ma lo zio Neil è bravissimo a schivare per tempo ogni possibile sconfinamento di campo, rimanendo ben saldo nella propria linea narrativa e spingendo al massimo sull’ormai consueta cura formale che contraddistingue da tempo immemore ogni sua creazione. Certamente i bei roboanti tempi di Intervista col vampiro e In compagnia dei lupi sono ormai ben lontani e qualche segno di stanchezza lo si percepisce chiaramente all’interno di un racconto che, alla fin della fiera, di veramente nuovo apporta ben poca cosa. Meno incisivo, forse, anche rispetto a prodotti più o meno similari partoriti nel corso dell’ultima decade. Ma poco importa, poiché si tratta sempre e comunque di un proprio stile, di una propria poetica e, dunque, un proprio film. Lo stalking è il vero e indiscusso protagonista di Greta, e con esso l’insana deviazione per il possesso umano che solo Berlin Syndrome e pochi altri recenti titoli hanno saputo portare al cospetto del grande schermo con lucida e tagliente oggettività. Quella stessa limpida freschezza che Jordan, anche a quasi settant’anni suonati, sembra continuare a sentir scorrere nelle vene della creatività e del mestiere. Unica vera sicurezza in un mare di desolazione e incertezza cinematografica.