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Gamer

2009
Titolo Originale:
Gamer
REGIA:
Mark Neveldine, Brian Taylor
CAST:
Gerard Butler (Kable)
Alison Lohman (Trace)
Michael C. Hall (Ken Castle)

Il nostro giudizio

Gamer è un film del 2009, diretto da Mark Neveldine e Brian Taylor

Da fantasma dell’opera a pupazzetto da videogioco, Gerald Butler si aggira sempre fra i meandri dell’etereo e della nuova virtualità. Ma il bellone scozzese si muove bene, physique du rôle importante, volto carico e segnato, standing rabbioso, non fa fatica ad entrare nei panni del protagonista, anche quando è costretto al ritmo forsennato e artificioso del videogame. E su questa percezione, in realtà, gira tutto il film dei due registi statunitensi, che ci avevano già abituato allo straniamento dovuto al vilipendio del fattore tempo con Crank. Un’espediente che non fa nulla per nascondere la finzione del cinema, anzi pare strappar via di forza un cerotto sul pelo della trama, lasciandoci una sensazione a tratti dolorosa e alo stesso tempo comica, della messa in scena. Dinamiche da nuovo millennio, per nuovi giovani che non portano l’orologio perché il tempo per loro non solo è relativo, ma nel loro pieno possesso. Da dilatare e restringere, nemmeno fosse una big-babol troppo masticata e un ultimo palloncino sempre troppo vicino a scoppiare. Insomma, qualcosa che somiglia appunto a un videogioco. Ecco la cifra dell’intuizione di Gamer. Non tanto l’iconografia, la fotografia, l’espediente da scherzo videoludico, quanto portare fuori dalle camerette dei nerd, al cinema, la sensazione allo stesso tempo fallace e potentissima di poter controllare il personaggio, di poter sempre mettere in pausa, di poter accedere al livello superiore e aspettare con masochistico gusto quella maledetta scritta game over.

Questo a un primo livello di lettura, diremmo quasi furbo, perché potrebbe essere solo lo strato di vernice lucida e brillante su una macchina tutto sommato usata, quella di Crank, in modo da rivenderla a una nuova generazione. Ma barare nel linguaggio non vuol dire per forza non far passare un contenuto. E Gamer sottende una chiara critica alla degenerazione dei nuovi media, in particolare la logica del reality, dell’illusione dell’interattività, del controllo, dell’illusione dell’on demand. Produzione taylor made e crossmediale dunque, la democrazia entra nel mondo dell’intrattenimento domestico. Ne siamo proprio sicuri? Lo siamo tanto quanto davanti allo scaffale dei detersivi al supermercato, quando abbiamo il “potere” di risparmiare venti centesimi sull’ammorbidente, ma fare comunque tanta schiuma nel fiume più vicino a casa, qualsiasi flacone scegliamo? In un futuro che pare dietro la porta, mastercard permettendo, si può giocare un videogioco in cui i protagonisti sono alla nostra mercé, ovvero rispondono ai nostri comandi e soprattutto soddisfano le nostre perversioni. Questo è Societies, in cui è intrappolata e mercificata la moglie del protagonista. Ma l’upgrade è Slayers, uno sparatutto basato su un vecchio esperimento di modificazione genetica di origine militare, finito nelle mani del cattivone Ken Castle (un caratterizzato Michael C. Hall), che consegna corpi e menti di condannati a morte, nelle mani di ricchi e annoiati giovani players. Gladiatori contemporanei, che lottano fra loro sperando di vincere trenta livelli di gioco e guadagnarsi così la libertà.

Eppure la salvezza potrà venire soltanto dall’affermazione della cara vecchia individualità che ci ricorda che un uomo è tale solo quando ha il libero arbitrio, ovvero la facoltà di sbagliare di proposito. Che in fondo è l’unica cosa che ancora lo distingue dalla migliore delle intelligenze artificiali. E siamo tornati al caro vecchio tema posto tanti anni fa da HAL 9000 e il suo inquietante occhio rosso. Ma è un altro il dubbio finale che ci lascia la pellicola di Neveldine e Taylor. Ma non è che alla fine il tentativo di esorcizzare le distorsioni di una medialità corrotta finisce per diventare esaltazione della stessa? Il dubbio resta, perché il contesto di ricezione è un fattore da non trascurare mai ai nostri giorni, popolato com’è da una generazione abituata solo a surfare sulla superficie della realtà, piuttosto che a mettere la testa sotto e rischiare di annegare.