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Funhouse

2019
Titolo Originale:
Funhouse
REGIA:
Jason William Lee
CAST:
Valter Skarsgård (Kasper Nordin)
Khamisa Wilsher (Lonni Byrne)
Gigi Saul Guerrero ( Ximena Torres)

Il nostro giudizio

Funhouse è un film del 2019, diretto da Jason William Lee.

Oggigiorno la fama è un po’ come la torta di ciliegie: quando pensi di esserne sazio ti accorgi con sorpresa di volerne ancora e ancora. È infatti inimmaginabile che cosa si sarebbe disposti a fare per ben più di un misero quarto d’ora di warholiana celebrità, a volte persino a rischio della propria stessa vita. Ed è appunto quello che accade ai giovani, carini e decisamente poco assennati imberbi protagonisti di Funhouse, i quali, assetati di una misera manciata in più di followers sui propri profili social e allettati da un premio di ben cinque succulenti milioncini, decidono senza troppi complimenti di prendere parte a uno strambo quanto misterioso reality show, nel quale buttare all’aria la propria privacy in nome di una visibilità senza precedenti. Salvo poi scoprire con gelido orrore che dietro a questa apparente ennesima versione de Il Grande Fratello si celano pericoli ben più insidiosi e mortali di un semplice battibecco riguardo chi non ha ripulito l’asse del cesso. Sin dai tempi del suo onesto esordio con The Evil in Us, Jason William Lee si è sempre divertito, in un modo o nell’altro, a prendere un gruppo di incoscienti cavie umane e a sbatterle senza ritegno in un qualche maniacale esperimento sociologico all’ultimo sangue fra le anguste quattro mura di una prigione, sia essa un laboratorio scientifico o, come in questo caso, un esclusivo bunker infrattato non si sa bene dove. E proprio i limiti dello spazio definiscono gran parte della claustrofobica atmosfera di Funhouse, un folle survival game trasmesso in diretta streaming da un server sconosciuto e inaccessibile a cui otto celebrità dell’universo social, alcune delle quali in profonda crisi da visualizzazioni, decidono di partecipare, ben sapendo di dover sacrificare la propria vita privata agli appetiti insaziabili di un’implacabile audience.

Guidati da una bonaria mascotte virtuale a forma di panda, dietro la cui motion capture si cela un misterioso guru dell’informatica, i nostri VIP pensano di aver trovato il proprio paradiso pubblicitario, fino a quando non scoprono che una delle challenge in programma prevede, udite udite, una vera e propria pignatta umana, con tanto di mazza chiodata e penzolante vittima sacrificale, rigorosamente vigile e sofferente. Inizierà così una spietata gara all’ultimo sangue, tra prove truculente sempre più ingegnose e dissapori interni che inizieranno a falciare uno dopo l’altro gli inermi concorrenti, trasformati per l’occasione in belve desiderose solo di arrivare vivi e vegeti ai titoli di coda. Con la terribile consapevolezza che, come esige l’implacabile regola del programma, alla fine ne dovrà rimanere soltanto uno. Prendendo le mosse dal meccanismo del gioco al massacro codificato a suo tempo dal profetico Saw e portato degnamente a maturazione da pellicole come Hunt – La caccia, Escape Room, Haunt e più recentemente Play or Die, l’opera di Lee si presenta come un prodotto di puro godereccio intrattenimento, nel quale tuttavia emerge con grande evidenza una spietata critica sociale verso una cultura dell’apparenza proiettata sempre più verso un porcaccissimo e bulimico voyerismo che risale nientemeno che alle arene romane, dove gli uomini si scontravano e trucidavano per il puro piacere di un pubblico inclemente. I giovani moderni gladiatori di Funhouse – tra i quali spiccano un tamarrissimo rapper, un patito di arti marzial, una scollacciata procacciatrice di selfie e una cazzutissima blogger ispanica – si trovano a prendere parte a un autentico carosello di creative offese corporali.

Basta la raggelante quanto profetica sequenza di apertura in punta di lama per capire che, emoglobina e oggetti contundenti a parte, ci troviamo già ben proiettati in un universo politicamente scorretto nel quale la psichedelica  fotografia di Shawn Seifert e la regia sempre sul pezzo dello stesso Lee appaiono solo come la punta di un iceberg tutto da assaporare e scoprire coll’implacabile passare dei minuti. Il misterioso burattinaio tecnologico, opportunamente occultato dietro le buffe membra di un pacioso ologramma che ricorda il mood del celebre Waldo di Black Mirror, altri non è che lo specchio del tanto chiacchierato “potere oscuro” che, a detta di alcuni, muoverebbe i fili delle nostre lobotomizzate esistenze, nelle quali morte e orrore non sono altro che un curioso e asettico intermezzo prima e dopo il nostro prossimo gameplay. Ed è proprio il corollario mediato a costituire l’aspetto più inquietate di questo già di per sé disturbante racconto, tra sedicenti esperti di cybersicurezza, mattatori televisivi infarciti di uno humor macabro del tutto fuori luogo ed ex mogli pronte a sfruttare la tragedia in diretta del proprio compagno per qualche primo piano più ristretto. Ma tutto ciò ha poca importanza, poiché, una volta consumato l’ultimo tragico atto, così come nello spietato epilogo del meno sanguinario ma altrettanto terrorizzante The Truman Show, l’impulso immediato è quello di cambiare canale e passare oltre.