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Final Portrait – L’arte di essere amici

2017
Titolo Originale:
Final Portrait
REGIA:
Stanley Tucci
CAST:
Geoffrey Rush (Alberto Giacometti)
Armie Hammer (James Lord)
Clémence Poésy (Caroline)

Il nostro giudizio

Final Portrait – L’arte di essere amici è un film del 2017, diretto da Stanley Tucci.

Parigi, anni ’60, il pittore e scultore Alberto Giacometti (Geoffrey Rush) gode di una fama indiscussa giorno dopo giorno, opera dopo opera. Eppure lui si sente al pari di un disadattato, affetto dalla malattia della vita, a causa della quotidianità snervante e depressiva. I suoi quadri, che vengono venduti a suon di milioni, per Giacometti sono sempre peggio, le sue sculture mai complete, lasciate a metà per mancanza d’ispirazione, eppure per galleristi e critici sono vere e proprie reliquie da ammirare con devozione. Una breve incursione parigina dello scrittore James Lord (Armie Hammer), lo porta a incuriosirsi dell’eccentrico artista, tanto da ricevere una proposta dallo stesso per un ritratto, con la promessa di completarlo in un pomeriggio. Inutile dire che il pomeriggio di lavoro si tramuterà in due settimane, in cui lo stesso Lord avrà modo di immergersi nella caotica vita del pittore.

Particolare e gradevole, Final Portrait, interamente scritto e diretto da Stanley Tucci. Ampiamente ispirato, senza incipit e senza un vero finale, l’interesse di Tucci è incentrato proprio nello studio che Lord effettuerà su Giacometti. I continui posticipi del viaggio di ritorno negli Stati Uniti gli saranno utili per scrivere un’ulteriore romanzo, proprio su questo evento. Il regista, infatti, trae liberamente ispirazione da quest’ultimo, assieme alla biografia dello stesso Lord su Giacometti, per creare una cornice al dipinto infinito e incompleto. Come la tela di Penelope, anche Giacometti crea e disfa il ritratto di Lord, passa interi pomeriggi per lavorare sul dettaglio del naso per poi cancellare tutto. Una motivazione la si trova nella quotidianità dello stesso pittore, tra eccessi di nicotina e liquori, un uso indiretto delle prostitute e pagamenti anticipati di mesi ai papponi. Giacometti è ricco, ricchissimo, ma non spende nulla, nasconde i soldi in casa, si concede pochi vizi, quali un appuntamento per pranzare nello stesso locale che, come una macchina, propone allo scultore cibi e bevande prefissate.

Giacometti ama sperimentare in un fattore ciclico ogni cosa possibile che il mondo abbia da offrire, vorrebbe sperimentare la morte ma, ahimè, è un processo irreversibile, però se mai dovesse farlo, vorrebbe morire bruciato vivo, il miglior modo per andarsene da questo sasso spaziale. Nel suo essere sostanzialmente minimalista, Final Portrait è un film dal sapore monumentale; affrontare uno sguardo tra due uomini così differenti eppure così concreti nel modo di interpretare la vita, rapisce totalmente i sensi. Per quanto la finalità risieda nei momenti di pittura e conversazione, è lo stesso Giacometti a rapire l’attenzione, sia per l’interpretazione di Geoffrey Rush, che per un coerente cinismo su cui l’artista ha costruito la sua vita: un disadattato che critica i colleghi e guadagna cifre enormi di denaro. Tuttavia sempre scontento, se non quando si lascia andare tra le morbide curve e grazie di qualche prostituta. Eppure in questo caos di vita, c’è una poesia indescrivibile, quella che lo stesso Lord cerca di rapire tra le pagine di un libro. Lo stesso Stanley Tucci non suggerisce nessuna conclusione concreta. D’altronde Giacometti sembra essere stato il più grande rappresentante della vita: caos, cibo, belle donne e una costante sensazione di essere inadeguati, al netto del plauso del pubblico.