Featured Image

Filthy

2017
Titolo Originale:
Spina
REGIA:
Tereza Nvotová
CAST:
Dominika Morávková (Lena)
Anna Sisková (Lena's mother)
Lubos Veselý (Lena's father)

Il nostro giudizio

Filthy è un film del 2017, diretto da Tereza Nvotová

Duro, crudo, vero. Per mostrare il mondo interiore di una vittima di stupro e sfatare il mito che la violenza sia qualcosa che accade nelle strade buie, a ragazze con gonne corte e gambe aperte, perpetrato da loschi sconosciuti. Questo il senso, non unico e per nulla scontato, di Filthy (sudicio) della regista, sceneggiatrice e attrice slovacca Tereza Nvotová under 35, vincitore del Riviera International Film Festival 2018 e presentato in anteprima mondiale nella sezione Bright Future dell’International Film Festival Rotterdam 2017. La storia di Filthy descrive, dal punto di vista della protagonista, Lena (Dominika Moravkova), il trauma dello stupro subito in un tranquillo pomeriggio di studio a casa e che fa partire la vittima per uno strano viaggio di formazione. La pellicola inizia con un primo piano di Lena trafitta sul volto dagli elettrodi dell’elettroshock, in una struttura psichiatrica a Bratislava. Poi, qualche fotogramma di una normale serata tra ragazzi in discoteca, con la musica che incalza, agita i corpi e lo stato d’animo dello spettatore. Che intuisce, prevede, come in un déjà vu, l’agguato di cui Lena sarà vittima, fuori dagli stereotipi comuni per cui le donne violentate se lo sono andate a cercare, nell’oscurità della notte e da parte di uno sconosciuto a cui hanno sbagliato a dare confidenza. Pochi secondi dopo siamo sull’argine del Danubio dove due ragazze liceali, Lena che è vergine e la sua amica coetanea che invece di esperienza ne ha da vendere, parlano di sesso, cazzi e piacere. “Com’è fatto? Cosa si prova a tenerlo in mano?” chiede con curiosità la protagonista all’amica. Due lolite acqua e sapone che si trasformano in testimoni involontarie di una Slovacchia, la terra dove il film è ambientato, che da agraria di sta modificando in industriale, con tutte le contraddizioni tra passato e modernità.

Da lì a poco si consumerà lo stupro. Lena è a casa con la mamma e il fratello, minorato psichico. Il genitore riceve Viktor, l’insegnante di ripetizioni di matematica, gli dice che è bello e che le sue allieve saranno tutte innamorate di lui. Suona come un invito, involontario ma dal sapore malizioso, che scatena Viktor e lo trasforma nell’orco divoratore. Così accade il peggio nella cameretta di Lena, mentre i famigliari sono a pochi metri di distanza e non si accorgono di niente. Non si accorgono perché, in una sporca manciata di secondi, l’orco immobilizza Lena sul letto, le soffoca la bocca sul cuscino, le blocca le braccia dietro la schiena e la stupra. La scena, niente nudo ma tanta violenza, condanna lo spettatore a fare i conti con la cruda realtà. Poi il silenzio. Nei giorni successivi, la vittima tenta il suicidio tagliandosi maldestramente il polso. A questo punto, per la giovane si aprono le porte dell’ospedale psichiatrico. Non si tratta di un luogo immaginario perché le case di detenzione e gli ospedali psichiatrici infantili slovacchi sono per lo più vergognosi. Non c’è resurrezione. Si muore e basta, ogni giorno un po’ di più tra terapie farmacologiche e maldestre analisi psicologiche di gruppo. In Filthy la regista utilizza come attori alcuni malati psichiatrici, mischiandoli con attori professionisti ai quali dice di proseguire la scena in corso mentre ai ragazzi dell’ospedale è permesso di dare in escandescenze, quanto e come vogliono.

Non è un problema, perché nessuno meglio di loro può interpretare il dolore che abita dentro e fuori le strutture di riabilitazione slovacche. “Esisto solo per farmi ficcare il cazzo nel culo da mio padre” vomita senza censura un’internata. La violenza, fisica e psichica subita genera solo violenza, anche all’interno dei luoghi di cura. Chissà se la regista si sia ispirata a Qualcuno volò sulle ali del cuculo, il capolavoro di Forman per Filthy. Così appare e ci piace pensare. Poi il tentativo di fuga di Lena con l’unica paziente che le si dimostra amica. Quindi, la rivisitazione dello stupro subito nella scena in cui la protagonista aiuta l’amica a infilarsi nella vagina, ancora vergine, un Tampax: “Mi fa male, non entra, è chiusa”. Così fino alla fine con il ritorno a casa e l’ennesimo tentativo di morire da parte di Lena. Ma i suicidi sono “contagiosi” e la ragazza è costretta a tornare nell’ospedale psichiatrico. Finalmente qualcosa squarcia il velo, la famiglia e gli amici comprendono il dramma della ragazza e la sua origine. L’omertà, presunta o reale, si trasforma in verità e consapevolezza. L’orco ha un nome, viene smascherato e allontanato. Ma non è il lieto fine. Il senso di colpa di chi ha subito e di chi ha visto, ma non ha capito, vince su qualsiasi altra interpretazione. Una considerazione fra tutte: ci sono vittime di stupro che hanno calpestato i red carpet delle mostre del cinema a braccetto dell’orco e chi, come Lena, ha calpestato i corridoi di un ospedale psichiatrico accompagnata da un infermiere.