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Family Blood

2018
Titolo Originale:
Family Blood
REGIA:
Sonny Mallhi
CAST:
Vinessa Shaw (Ellie)
Colin Ford (Kyle)
Eloise Lushina (Amy)

Il nostro giudizio

Family Blood è un film del 2018, diretto da Sonny Mallhi.

Fare gli sciantosi con due soldi e quattro stracci non è certo cosa buona e giusta, tanto nella vita quanto nel cinema di genere. Amara lezione pagata a carissimo prezzo dal buon Sonny Mallhi, forse ancora troppo galvanizzato dal discreto esordio di Angoscia (2015) da non rendersi minimamente conto dell’imbarazzante mediocrità del suo nuovo film, pellicola che punta decisamente troppo in alto senza avere a disposizione la ben che minima rete di sicurezza. Nonostante avesse le chiappe opportunamente parate dall’egida produttiva di papà Jason Blum e dall’accanito ottimismo distributivo di mamma Netflix, l’incosciente cineasta (ed ex producer) di Chicago si è bellamente divertito a fare il Truffaut “de’ noantri” con in mano poco più che una sterile storiellucola di vampiretti fuori tempo massimo, imbellettando ogni singola inquadratura di una pedante e asfissiante autorialità ultra-esibita al solo scopo di mascherare una deprimente assenza di spessore narrativo. Credetemi: disquisire in materia di Family Blood è davvero una pacchia, amici miei! Dunque bando alle ciance e partiamo dal principio, ovvero dai postumi di sbornia (e sfiga) che affliggono la povera Ellie (Vinessa Shaw), separata dal marito a causa di un recentissimo passato da alcolizzata e decisa più che mai a riabilitarsi per amore dei due figli Kyle (Colin Ford) e Amy (Eloise Lushina). Ed è proprio durante uno dei tanti tristissimi incontri degli alcolisti anonimi che la donna incrocia casualmente (?) il misterioso Christopeher (James Ransone), il quale si rivela nientemeno che un succhia sangue in cerca di nuove prede non certo innocenti.

Caduta nelle grinfie dell’intrigante principe della notte, Ellie inizia a sperimentare gli ormai consueti sintomi da morso sul collo (ipersensibilità, autorigenerazione istantanea, rifiuto di ogni cibo solido e un mostruoso appetito emoglobinico), divenendo a poco a poco un essere alquanto pericoloso per i propri affetti più cari. Nonostante Jim Jarmusch, con lo splendido Solo gli amanti sopravvivono (2013), avesse battuto il solenne e definitivo ciak in materia vampiresca, il poco lungimirante Mallhi ha creduto bene, con Family Blood, di avere ancora qualcosa di sensato e importante da dire in merito, senza prendere coscienza delle tre macroscopiche pecche che viziano la propria opera sin dalle più profonde radici. Errore numero uno: svelare l’arcano nei primi due minuti e mezzo di girato non pare davvero una mossa intelligente, a meno che di cognome non si faccia Hitchcock. Errore numero due: ingolfare una storiella così poverella di sfighe esistenziali, manco fosse il Cottolengo, risulta una scelta poco felice se non alquanto letale. Errore numero tre: se proprio non se ne può fare a meno e si sente l’impellente bisogno di raccontare l’ennesima storia di Nosferatu, beh allora, Santa di quella Paletta, per lo meno lo si faccia in maniera ortodossa, senza tentare di mettere in scena figli della notte che se ne vanno a zonzo in piena luce del sole e che si prendono persino la libertà di specchiarsi senza problemi, entrando nelle altrui dimore senza essere opportunamente inviati.

Ok, direte voi, il vecchio Mallhi la vuol buttare sul versante pseudo scientifico e darsi un certo tono associando la dipendenza alcolica della protagonista alla nuova dipendenza da globuli rossi (si, vabbè dai!!!). Bene, bravo bravo, bravissimo! Ma ciò non toglie che tutto rimanga, sempre e comunque, una gran vaccata e che il film faccia acqua da tutte le parti manco fosse uno scolapasta. Partendo da un incipit da autentica supercazzola cinematografica che già fa presagire il peggio – con il vampirozzo di turno che, a sorpresa e in primissimo piano, si toglie una dentiera posticcia (!!!) – per giungere a un epilogo alla Underworld di Casa Vianello, Family Blood intristisce non tanto per il proprio inesistente contenuto drammaturgico, ma bensì per i propri maldestri tentativi di ergersi a opera d’autore rimanendo niente più che una caccoletta nuda e cruda nell’immenso setto nasale della mitologia dei canini appuntiti.